INTERVISTA | ALESSANDRO LAITA – CHIARALICE RIZZI

Alessandro Laita e Chiaralice Rizzi offrono la visione di un contemporaneo Grand Tour attraverso le fotografie del progetto Tempo di viaggio. Nel documentario si vedono Tarkovsky e Guerra che girano l’Italia alla ricerca dei luoghi in cui girare Nostalghia. Il lavoro, atlante di luoghi meta-reali, rimanda a suggestioni del documentario Tempo di viaggio. Nel documentario si vedono Tarkovsky e Guerra che girano l’Italia alla ricerca dei luoghi in cui girare Nostalghia. L’esposizione, visitabile negli spazi milanesi di Office project room fino al 2 marzo, è inserita in una serie dal titolo Dialoghi.


Del progetto Tempo di viaggio mi incuriosisce subito il legame con il Grand Tour. L’urgenza di immergersi personalmente nella cultura italiana ha spinto, per decenni, artisti, poeti e letterati a lasciare i territori europei al fine di conoscere una terra densa di cultura come la nostra.
Oggi la cultura è usa e getta, le immagini sono molteplici e frammentate, allo stesso tempo, fruibili in ogni luogo/ non luogo da uno schermo che filtra i colori, gli odori e soprattutto il sentire di un territorio. In quale direzione si proietta il lavoro?

Entrambe le suggestioni a cui ti riferisci convergono nelle intenzioni di Tempo di Viaggio.
Il titolo del lavoro è lo stesso del documentario di Tonino Guerra e Andrej Tarkovsky del 1983 e abbiamo scelto di mantenerlo proprio per il suo carattere evocativo.
Della tradizione del Grand Tour ci interessava la connessione tra geografia e immaginazione che si ritrova nei disegni: sono affascinanti perché mai descrittivi.
Guardandoli si ha l’impressione che ogni paesaggio disegnato sia in fondo una veduta non completamente rispondente alla realtà e questo è uno scarto che volevamo mantenere nel lavoro.
Allo stesso tempo, abbiamo ragionato sulla natura dell’immagine e del tempo cinematografici e il loro legame con la fotografia.
Scegliendo di creare delle composizioni con i fotogrammi dei paesaggi tratti dal documentario abbiamo spostato il discorso sul piano che più ci interessava, ovvero quello dell’immagine.
Il montaggio che abbiamo operato, escludendo questi fotogrammi dal flusso narrativo del film, restituisce delle immagini complesse ma nell’insieme assolutamente plausibili. A un’attenta osservazione si capirà che la profondità percepita suggerisce la presenza di un fuoco in cui nulla davvero converge, si riconosceranno alcune stranezze come una scala di pietra ripetuta, uno scoglio trasparente, un arco quasi sospeso nel vuoto: dei “glitch”, imperfezioni dell’immagine che svelano il lungo lavoro che sta al di sotto di ogni composizione. Abbiamo cercato di trovare una “terza via” rispetto a quelle che tu suggerisci, una traduzione tra il mondo digitale e quello del disegno.

Il confronto tra realtà e mimesi è da sempre un topos dell’arte. È una dicotomia presente nella serie esposta nello spazio di Office project room?

Il nostro lavoro ha un legame profondo con la realtà e siamo affascinati da quello che sfugge allo sguardo. Le fotografie in mostra sono composizioni che usano la pratica del montaggio come strumento per arrivare a una riflessione sulla tradizione della fotografia di paesaggio, usandone i codici ma scombinandoli. Evitando però ogni sorta di “effetto”, le incongruenze che si riscontrano nelle immagini creano un’atmosfera rarefatta che sospende ogni azione e offre aperture immaginifiche, “sovratemporali” in cui ciascuno può costruire il proprio orizzonte narrativo.

L’immagine costruita è stata creata attraverso una stratificazione di altre immagini leggermente diverse che andavano via via riconfigurandosi quasi autonomamente attraverso un lungo lavoro di osservazione. In un certo senso, abbiamo lavorato con il mezzo digitale secondo quello che in pittura viene definito velatura, le immagini superiori sono state applicate diminuendo l’opacità e, in alcuni casi, applicate delle maschere fino a che non fosse l’immagine stessa a configurarsi nel risultato finale. Ci si potrebbe interrogare non tanto della realtà dei luoghi ritratti, per loro natura “fasulli”, piuttosto della realtà delle immagini stesse o della loro mimesi.



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All’interno della mostra ci si imbatte in un’opera a confronto con le vostre. Cosa vi ha portati a scegliere un lavoro di Adrian Paci e come dialoga con la vostra ricerca?

La mostra fa parte di una serie chiamata Dialoghi in cui ad artisti emergenti è chiesto di relazionarsi con il lavoro di un artista affermato che proviene da una collezione privata.
Il confronto con il lavoro di Adrian Paci è nato a partire dal rapporto di stima e amicizia che ci lega. Abbiamo optato per questo piccolo dipinto su tavola (dalla serie Passages, 2010) perché, come negli altri suoi disegni e dipinti, afferra la memoria dell’azione che ritrae offrendo una temporalità diversa.
Il suo lavoro dialoga con il nostro perché in entrambi avviene un incontro tra immagine e tempo. Sono racconti di apparizioni.

Se vi chiedessi di descrivere unimmagine che è rimasta nella vostra memoria in modo più stringente rispetto ad altre del film Nostalghia quale scegliereste e in che modo si è inserita nel processo di creazione di questo lavoro?

Forse la più famosa di tutte, quella di Gorčiakov nella piscina con in mano la candela accesa. Quest’immagine ci rimanda immediatamente alle parole di Carlo Sini (trasmesse a noi molto tempo fa proprio da Adrian) quando dice che il lavoro si ha quando c’è trasferimento, quando qualcosa è trasposto in qualcos’altro e tramite qualcos’altro.

Quell’immagine è rimasta presente in noi come un paradigma, ovvero come volontà di andare a cercare l’esperienza alla sua fonte, per creare un lavoro da considerarsi “aperto” ma non incompiuto, costituito in modo da poter essere un’“entrata” a un mondo parallelo attraverso cui descrivere il contatto che è intercorso tra noi e le cose che ci hanno affascinato.

Le fotografie di Tempo di viaggio hanno un carattere che potremmo definire transitorio: da una parte sono frame di una narrazione che subisce un arresto forzato, dall’altra mimano e ridisegnano luoghi che esistono solo in parte per completarsi in una meta realtà filmica.
Come sono nate? Qual è stato il processo di creazione di questo ciclo?

Joseph Kosuth, nel 1969, diceva che essere artisti voleva dire interrogare la natura stessa dell’arte1.È un’intuizione che per noi rimane attuale.
In generale la nostra ricerca nasce da una riflessione sulla fotografia, sulle sue possibilità e limiti.
Laricerca formale ci interessa nella stessa misura in cui il contenuto del lavoro è legato alla necessità di realizzarlo.
Questi paesaggi familiari e immaginari allo stesso tempo per noi sono luoghi in cui si trattengono contemporaneamente immaginazione e dubbio, strumenti necessari per creare un lavoro ma anche per farne esperienza.

La mancanza di azione o narrativa nelle immagini di Tempo di Viaggio sottolinea certamente il carattere sospeso delle immagini ma allo stesso tempo genera una tensione che suggerisce epifanie, dunque un nuovo movimento.
Le sequenze che abbiamo scelto e su cui abbiamo lavorato sono dei momenti “di transizione” del documentario, pause tra i dialoghi nel viaggio in Italia compiuto da Andrej Tarkovsky e Tonino Guerra. Sono le uniche riprese di paesaggi e in esse la telecamera sembra indecisa, allarga l’inquadratura poi la restringe, si muove verso destra e poi ritorna allargandosi verso sinistra. Il tutto nella quasi totale immobilità del soggetto ripreso.
Per noi sospendere quella narrazione era un atto necessario al fine di far partecipare tutti gli eventi che configurano quel paesaggio nello stesso momento. Abbiamo cercato di riportare un’esperienza di osservazione disinteressata che in noi si è aperta e ha dato vita ad una felicità che abbiamo immediatamente riconosciuto come nostra e di cui abbiamo sentito l’urgenza di parlare.

a cura di Francesca D’Aria


1) Arthur R. Rose, Being an artist now means to question the nature of art, in Four Interviews, Arts Magazine (February, 1969).


DIALOGHI // Adrian Paci – Chiaralice Rizzi, Alessandro Laita

13 dicembre 2018 – 02 marzo 2019

Office Project Room – Via Altaguardia, 11 – Milano

www.officeprojectroom.com


www.chiaralicerizzi.net

www.alessandrolaita.com

Instagram: alelaita

Instagram: chiaralice_rizzi


Caption

Alessandro Laita e Chiaralice Rizzi – Courtesy gli artisti

Tempo di viaggio, 2018 – Vista installazione, Office Project Room, 2019 – Courtesy Office Project Room