Intervista a Oliviero Fiorenzi

Oliviero Fiorenzi è nato a Osimo nel 1992, da dieci anni vive e lavora a Milano. Spostandosi tra questi due contesti, ha sviluppato una particolare sensibilità per il tema del paesaggio e attraverso il suo vissuto personale costruisce un complesso apparato segnico figurativo grazie al quale entra in relazione con il contesto in cui opera, producendo installazioni pittoriche e scultoree. L’artista sviluppa un codice personale in costante aggiornamento, strumento con il quale costruisce a seconda del progetto, nuove architetture di significato.


Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”; alcuni dei tuoi lavori mi fanno pensare a questa frase di Italo Calvino. La tua pratica mi pare voglia raggiungere una leggerezza esemplare, seguendo l’accezione fisica di questo termine. Cos’è per te leggerezza? Come questa si ritrova nelle forme che esprimi?

Per me la leggerezza è il peso forma del pensiero. Per essere leggeri bisogna levare tanto e arrivare all’essenza dell’idea, liberarla di tutto quel peso in più che viene voglia di aggiungere mentre si progetta e si pensa. Se la leggerezza è l’obiettivo, la pratica di pensiero è ludica. Posso raggiungere la leggerezza solo “giocando”. Per me il gioco è il modo di esplorare il mondo. E il gioco è una cosa estremamente seria, tutt’altro che superficiale. Io mi ricordo che da bambino giocavo molto seriamente. Un gioco presente e profondo. Considero la pratica artistica come un’esplorazione strettamente legata al gioco e al senso della scoperta. Credo che quest’impresa ludica, che a volte prende il nome di arte, sia un metodo di esplorazione pratico, una chiave del fare, un modo di analizzare il mondo. Cerco di stupirmi facendo: gioco oggi come giocavo un tempo, rievocando attraverso il disegno e la scultura gli stessi sentimenti di quando ero bambino. E torno a stupirmi.

Il gioco, come lo definisce Johan Huizinga, è il momento in cui si esce dal puramente razionale per abbracciare lo spirituale, l’immaginario. L’Homo Ludens è l’uomo che giocando costruisce un sistema effimero di relazioni tra sé e l’ambiente, che affida l’esecuzione e la comprensione del mondo al caso e all’intuito guidato dallo stupore. Si cerca così quella porta “magica” capace di mettere in contatto mondi diversi: coltivando l’incidente, il caso, l’imprevedibile, accogliendolo nel migliore dei modi. Ovvero giocando. Inoltre, immagino la pesantezza dell’essere nella sua relazione con un liquido. Ci sono quei momenti in cui riusciamo a planare sulla superficie scivolando senza entrarci dentro.
E ci riusciamo perché conosciamo bene quel liquido, sappiamo come si comporta. E ciò che ci guida sulla superficie è l’intuito. Bisogna conoscersi per poter planare su se stessi.

L’essere umano per te è quel soggetto che attraversa la tua architettura, i tuoi animali, i tuoi colori, un soggetto che ti diverti a stupire trasformando e rivoluzionando elementi che fanno parte del suo vissuto: un tuo alfabeto, bandiere di nessun-luogo, un rifugio in cui non puoi nasconderti, turbine che offuscano con il vento le opere; che valore ha il ruolo del fruitore nella tua ricerca?

La reciprocità dello sguardo come affermazione dell’essere. Poco dopo aver imparato a vedere, ci accorgiamo che possiamo essere visti a nostra volta. Io non esisto senza l’altro, l’arte per me è sempre anche un’occasione per un dialogo e un confronto. Con la mia ricerca visiva esploro il mio mondo personale, che poi traduco in alfabeto. L’alfabeto simbolico di cui parlo è una ricerca grafico-pittorica che ho svolto parallelamente al percorso scultoreo. Si tratta di un linguaggio pittografico le cui immagini sono legate alle memorie della mia infanzia, un codice visivo in costante aggiornamento, che insegue quel sentimento di stupore legato alla scoperta, quello che è stato mio da bambino. Perché è proprio a quelle prime esperienze che dobbiamo la nostra immaginazione; quelle scoperte fatte tra l’infanzia e l’adolescenza, che hanno depositato influssi simbolici permanenti e significativi. Come scriveva Cesare Pavese in Feria d’Agosto, quella che sto componendo è la mia “mitologia personale”, perché “Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo”. Il ricordo diventa quindi il mezzo attraverso il quale elaboro le immagini. Ogni pittura che reitero rappresenta la memoria di un evento, di una sensazione o un sentimento che ho già vissuto. Una cartografia della memoria. Ed è con questo linguaggio personale che comunico con l’altro e posso farlo perché le mie esperienze fanno riferimento a degli archetipi universali che chiunque è in grado di interpretare. Con le mie opere installative cerco di fare domande invece di dare risposte. Le mie sculture mobili diventano il supporto per il mio alfabeto, e il mio linguaggio messo in moto dal mondo pone delle domande a chi osserva.

Hai partecipato a SUPERBLAST – Residency program, Manifattura Tabacchi di Firenze, dove hai costruito una scultura cinetica, una turbina azionata dal vento, che valore assumono i fenomeni atmosferici nella tua ricerca come artista visivo? Altra curiosità, come è stato collaborare con il Dipartimento di Ingegneria Industriale (DIEF) dell’Unifirenze?

4-20 Airmarks è una scultura cinetica azionata dalla forza del vento, in grado di interagire attivamente con gli elementi atmosferici. L’intervento pittorico interessa l’intera struttura e accompagna lo sguardo sulla turbina eolica dove trovano spazio una serie di elementi figurativi e grafici che fanno parte del mio alfabeto simbolico. All’attivazione dell’aeromotore le immagini, chiaramente percepibili, sfumano nel colore e tendono all’astrazione restituendo un effetto visivo unico e diverso dal disegno di partenza. I fenomeni atmosferici quindi ricoprono un ruolo centrale nella mia ricerca, in quanto sono gli attivatori di meccanismi poetici. Lavorare con il vento, significa lavorare con il cielo; uno spazio aperto, poetico e randomico, che mi ha suggerito di realizzare un’opera capace di vivere di vita propria, in grado di adattarsi e di reagire al cambiare delle condizioni esterne. Occorre considerare che i cambiamenti climatici generano mutazioni del contesto che non sono programmabili, e rappresentano quindi un fattore dinamico che influisce sull’opera, generando casualità. Il messaggio dipinto è perciò visibile solo in determinate condizioni atmosferiche, e dialoga con il contesto solo in alcune specifiche e incontrollabili circostanze. L’opera in ogni momento vive di rinnovamento continuo, rinnegando così l’idea di opera d’arte intesa come oggetto e come fine, ed enfatizzando piuttosto l’esperienza vissuta, la costruzione di situazioni e azioni effimere. Lo scambio di conoscenze con l’Università di Firenze è stato per me estremamente utile e stimolante. La posizione dell’opera nella piazza dell’orologio non è casuale, ma frutto del lavoro svolto con Alessandro Bianchini e Francesco Balduzzi che ringrazio sentitamente.



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Nei tuoi lavori troviamo architetture, segnali e paesaggio; un esempio è l’installazione Anti Camouflage. In che modo hai concepito questo lavoro? quanto conta per te la percezione e l’esperienza dello spazio?

Anti Camouflage è un’azione temporanea site-specific svolta durante la Residenza Shot e nasce dall’intenzione di evidenziare un oggetto, parte di una memoria collettiva in abbandono. Le strutture militari presenti nel parco delle Groane nell’alta pianura lombarda, si trovano da tempo in uno stato di incuria. Con gli anni la natura ha compiuto sulle strutture un’azione di camouflage. La mia attenzione si è focalizzata su una delle torri di avvistamento del sito militare. Strutturando un intervento di vestizione, ho dipinto su teli di cotone tagliati a misura, un disegno “Anti Camouflage” ovvero un pattern che nella forma sia un richiamo alla natura ma con una palette colori in contrasto con l’ambiente circostante. Questa procedura rende la torre immediatamente evidente alla vista, rendendola facilmente individuabile nella radura. Per me lo spazio inteso come il contesto culturale, storico, sociale è spesso il punto di partenza per pensare al lavoro. Il mio posto preferito è lo spazio aperto, perché mi piace che l’opera si confronti con le variabili casuali come il meteo, per esempio. A quel punto diciamo che questo tipo di relazione tra opera e contesto è un po’ come la relazione che si crea tra l’uomo e l’ambiente, e quindi la mia questione personale in questo caso nasce dal confronto con quel lato incontrollabile e imprevedibile della natura. Che cosa succede all’opera? Come l’opera mutua e si evolve continuamente? Diciamo che l’opera è sensibile alla vita. E questo è qualcosa che si può esperire solo in prima persona.

Segnali è parte di un lavoro complesso, di cui fa parte anche una pubblicazione, che ci parla di mare, di segnali, di bandiere, di frontiere. Con questo cerchi di creare un tuo codice, una tua direzione e il tuo racconto di relazione con il contesto, così come le possibili soluzioni all’esistenza sulla terra. Quale valore attribuisci alla pratica artistica in rapporto alla progettazione degli spazi che ti circondano e del mare?

Segnali nel mio percorso è stato un turning point. Il progetto attraverso l’utilizzo del segnale marittimo come supporto e strumento indaga il mare come spazio espositivo inedito. La libera fruizione del mare in quanto bene pubblico è un diritto primario dei cittadini. Questa visione accende delle riflessioni sul concetto di spazio pubblico e sui suoi confini che sono oggetto di questa ricerca. Il mare è uno spazio che per sua natura si comporta in maniera variabile; dove risulta difficile costruire in maniera permanente. È uno spazio mutevole e incontrollabile, che cambia continuamente forma con il passare del tempo. Uno spazio aperto, che facilita la visione onirica, adatto al pensiero utopico.

Installare un’opera in mare significa mettere l’oggetto in relazione con elementi naturali che lo condizionano in modo imprevedibile. L’imprevedibilità è uno dei principali motivi per cui ho scelto il mare come luogo espositivo: un contesto dove l’architettura è assente e dove l’opera diventa l’unica protagonista influenzata solo da eventi naturali.

Con Vittoria Ciorra e Nicolò Pediconi avete creato AN/CO – AN/contemporanea nella città di Ancora, uno spazio di ricerca, multidisciplinare e indipendente, in cui approfondite i concetti di partecipazione, paesaggio e mobilitazione dalle provincie con la volontà di creare condizioni di vita comunitaria nello spazio periferico. In che modo questa realtà può diventare uno strumento per resistere alle grandi città, alla concentrazione dell’arte e di individui in questi luoghi? Come state affrontando la ricerca e che tipo di pratiche di innovazione pensate di attivare?

AN/CO nasce da un sentire comune, dalla mancanza di uno spazio indipendente per l’arte contemporanea nella città di Ancona. E la responsabilità è il sentimento che ha fatto scattare questo sentire. Il nostro è un progetto no profit e se lo portiamo avanti è solo perché lo vogliamo fare. Quando parlo con gli artisti con cui collaboriamo spiego sempre che la nostra è una missione di volontariato culturale. La città è selvatica, sfuggente e inafferrabile e questo la rende il contesto perfetto per generare qualcosa di genuino. La nostra programmazione prevede il coinvolgimento di persone esterne al contesto perché crediamo che la città abbia bisogno di altri punti di vista. Il nostro è uno spazio di ricerca che non ha confini spaziali. AN/CO si chiama come la città che la ospita perché AN/CO è la città stessa. E i progetti che proponiamo hanno come fil rouge l’obiettivo di interagire con la città. Secondo me l’unica città da decentralizzare in Italia è Milano. Anche se questo non è il nostro obiettivo, ci sta risultando semplice. Perché AN/CO ha delle caratteristiche che per forza di cose la rendono più interessante rispetto ad un progetto indipendente fatto a Milano.

Ce ne stiamo rendendo conto mentre lo stiamo facendo, lo scorso dicembre abbiamo presentato un’installazione di Edoardo Caimi pensata appositamente per lo spazio e a natale la prima mostra personale di Lorenzo Lunghi. Questa primavera presenteremo un progetto di mostra personale di Pietro Amoruoso, mentre quest’estate Stefan Tanaze. Entrambi scoprendo i nostri spazi e la città si sono resi immediatamente conto del potenziale e della forza inespressa della città e della provincia.

Stai preparando una grande opera pubblica, un campanile sul mare, con la collaborazione di Edoardo Tresoldi. Vuoi anticiparci qualcosa su questo progetto?

Si tratta di una grande opera pubblica temporanea per la città di Ancona che verrà installata tra la primavera e l’estate 2022. Un campanile galleggiante posizionato in mare davanti alla città. Io mi sono occupato del progetto della Campana, che però sarà tale solo in riferimento alla sua posizione all’interno del campanile. Ho pensato a una scultura cinetica composta da tre turbine posizionate verticalmente una sopra l’altra in grado di ruotare indipendentemente l’una dall’altra grazie alla forza del vento. In più le turbine in alluminio lucidato creeranno segnali luminosi con il riflesso del sole sulle pale. La campana invece di emettere suono emetterà luce, come un faro. Grazie alla forza del vento, al movimento casuale delle onde e ai raggi del sole, si genererà un gioco infinito di luci nell’intorno. la campana diventerà così un segnale naturale in simbiosi con il paesaggio, in rapporto mimetico con lo scintillio del mare. Come il campanile realizzato in rete metallica essendo trasparente si perderà nel paesaggio, così anche la campana si confonderà con il mare pur emergendo come segnale aperto a tutti, alle onde e al vento.

A cura di Manuela Piccolo


www.olivierofiorenzi.com

Instagram: dilentigreblu


Caption

Oliviero Fiorenzi, Do you Wanna Be MW GT, 2019, Tessuto e gomma piuma – Courtesy l’artista

Oliviero Fiorenzi, Segnali, 2019 – Mixed Media – Courtesy l’artista

Oliviero Fiorenzi, 420 Airmarks, 2021 – Ferro e pittura a smalto – Courtesy l’artista, ph Leonardo Morfini

Oliviero Fiorenzi, Anti Camouflage, 2018, Cotone e Pittura Acrilica – Courtesy l’artista, ph Luca Gerace

Oliviero Fiorenzi – Courtesy l’artista