Intervista a Giovanni Vetere

Giovanni Vetere, classe 1995, è un giovane artista nato a Roma e residente a Londra. Sebbene abbia iniziato il suo viaggio con la fotografia e la scultura, ora ha deciso di concentrarsi sulla performance come mezzo per perseguire il suo interesse per la sperimentazione. Nella sua pratica cerca di comprendere la relazione tra i tre elementi attivi che fondano la performance art: spazio, pubblico e performer.
L’acqua gioca un ruolo fondamentale nella sua fare artistico, indagando la doppia valenza di vita e morte: mettendo in discussione la sua posizione di essere umano e immergendo il corpo in un ambiente innaturale, le performance di Vetere coinvolgono lo spettatore in un viaggio alla scoperta delle sue origini.
Vetere ha esposto in diverse città europee, tra cui Roma, Firenze, L’Aia e Londra, e nel 2017 gli è stato conferito il premio “Lorenzo Il Magnifico” alla Florence Biennale nella categoria Performance Art.

In occasione della sua nuova performance Talk to the Fish, realizzata il 19 febbraio 2020 presso Volvo Studio Milano, abbiamo dialogato con lui.


Qual è il tuo background formativo?

Ho studiato fotografia in una delle più antiche accademie di Belle Arti a Londra, Camberwell College of Arts.

La performance come mezzo espressivo: perché hai scelto questo medium per comunicare la tua arte?

Appena ho iniziato ad approcciare la fotografia mi sono subito sentito frustrato poiché non riuscivo a dare sfogo a tutta la mia forza creativa. Sentivo la necessità di esplorare un mezzo che mi potesse dare più libertà di espressione e che non mi facesse sentire ristretto. Con la fotografia mi sentivo in gabbia, ero sempre destinato a dare un’immagine concreta a ciò che facevo. All’accademia sentivo la necessità di mettere il mio corpo al centro della mia opera perché volevo sentirmi protagonista, volevo vivere ciò che facevo e poter sentire fisicamente le mie esplorazioni e le mie ricerche.

L’acqua gioca un ruolo fondamentale nella tua pratica artistica: in che modo?

L’acqua rappresenta la potenzialità e la fluidità, due elementi fondamentali per lo sviluppo dell’essere umano. Mi sono interessato all’acqua in accademia quando mi sono immerso in un acquario davanti al resto dei miei compagni. Ho subito capito che l’acqua poteva dare un effetto di vita e morte allo stesso tempo e che scaturisce sensazioni di comfort e di disagio.

L’essere umano ha una relazione un po’ irrisolta e confusa con l’acqua. Siamo creature fluide e viviamo in relazioni simbiotiche senza accorgercene, viviamo l’acqua in maniera molto più diretta di quello che pensiamo, viviamo gli agenti atmosferici ed il resto delle creature terrestri e marine dentro di noi. Gli scambi con il resto del mondo avvengono spesso attraverso una relazione bagnata. Grazie allo studio di un gruppo di ricercatrici femministe, che si definiscono Hydrofeminisst, ho capito che l’acqua è un elemento di potenzialità, che ci unisce con il resto del mondo e ci rende consapevoli delle nostre ‘hydrocommonalities’. Bisogna re-immaginare il concetto dell’acqua, ridefinire la nostra relazione con l’elemento per poi poter approcciare la natura e i suoi componenti in modo più simbiotico e fluido. Fluido nel senso di multi-direzionale: non dobbiamo pensare di essere i protagonisti della storia ma di esserne partecipanti, creando comunità, legami e storie da raccontare.

Hai avuto esperienze sia in Italia sia all’estero: come è percepita la performance art nel nostro Paese e Oltralpe?

A Londra la performance è percepita in maniera diversa, è meno uno spettacolo e più un momento da condividere. Questo avviene perché a Londra manca proprio la condivisione fisica, le relazioni affettuose vengono tralasciate e dunque la performance è un momento per poter aprirsi e lasciarsi andare dall’akwardness’ inglese.

In Italia, ovunque ci sia una performance, tutti corrono a prendere un telefono in mano e filmare tutto il possibile. C’è ancora questa concezione di spettacolo alla quale siamo tutti molto legati. Io stesso mi rendo conto che in Italia tendo a dare più importanza all’estetica e alla teatralità, mentre in Inghilterra mi sento più spoglio dalle scenografie.



fu Portrait of the Homo Acquaticus, Camberwell Collage of Arts, 2018. Ph Amber Muir (2)
FU VOLVO STUDIO MILANO ART ENCOUNTERS 3 -19 febbraio 202067
Il Cappello del Polpo - Giovani Creativi Closing
FU EVOLVO STUDIO MILANO ART ENCOUNTERS 3 -19 febbraio 202067
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C’è una tua performance a cui sei particolarmente legato?

Sono molto legato alla prima performance che ho realizzato in acqua, Bodies of Water (2018). Non avevo idea di quello che stavo facendo, volevo solo provare, fare un esperimento per capire cosa potesse accadere immergendo il mio corpo sott’acqua per qualche ora, respirando da un tubo. Da lì è partita una ricerca che ancora non ho portato a termine e che mi sta dando tante possibilità di espansione.

Hai un performer che ritieni punto di riferimento per la tua pratica artistica?

Yvonne Rainer, Trisha Brown, Bas Jan Ader, Chris Burden. I performer americani degli anni Cinquanta e Sessanta sono stati un grandissimo punto di riferimento per la mia formazione da performer e artista. Ho imparato molto dalle loro opere soprattutto da In search of the Miraculous (1975) di Bas Jan Ader per il suo approccio al mare e al sublime.

Talk to the Fish è la performance che hai presentato lo scorso 19 febbraio 2020 da Volvo Studio a Milano: in cosa è consistita?

Talk to the Fish è stata una nuova performance ispirata alle teorie dell’homo aquaticus e degli scienziati A. Hardy ed E. Morgan. La performance ha proposto un dialogo tra uomo e mare, invitando lo spettatore a ripensare il rapporto tra la specie umana e la natura. Con questa performance ho voluto mettere alla prova qualsiasi consapevolezza precostituita del pubblico e la sua capacità, in quanto essere umano, di adattarsi a un nuovo ambiente. Durante la performance si è svolta anche una talk, moderata dal collettivo The Orange Garden: ciò mi ha permesso di indagare il rapporto tra performer e pubblico mediato dall’elemento acquatico, poiché sono stato in grado di ascoltare, allo stesso tempo, i discorsi nell’ambiente esterno e di interagire con essi.

Ti abbiamo visto sfilare per Gucci: raccontaci questa esperienza nella moda

Lavorare per Gucci è stato un privilegio. Conoscere Alessandro Michele una grande ispirazione. Mi sono sentito subito a casa perché il concept della sfilata di Gucci mirava a sostenere chi solitamente si sente vulnerabile ed emarginato perché si veste o si comporta in maniera “non ordinaria”. Il brand Gucci promuove e valorizza la diversità e la fluidità, temi di cui mi sento portavoce come artista e che tento di sviluppare attraverso la sperimentazione con l’acqua.

Progetti futuri?

Tanti. Tantissimi. Sto preparando una mostra a Londra che inaugura il 12 marzo, nella quale presenterò una nuovissima installazione e performance. Ad aprile torno a Roma per portare a termine dei lavori ceramici commissionati da alcuni collezionisti e poi parto per gli USA dove farò una mostra a Los Angeles e New York.

A cura di Valentina Piuma


www.giovannivetere.com

Instagram: giovannivetere


Caption

Portrait of the Homo Acquaticus, Camberwell Collage of Arts, 2018 – Courtesy l’artista, ph Amber Muir

Giovani Vetere, Talk to the Fish, Milano, 19 febbraio 2020 – Courtesy Volvo Car Italia

Cappello del Polpo, Palazzo Massimo alle Terme, 2020 – Courtesy l’artista, ph Eleonora Cerri Pecorella

Giovani Vetere, Talk to the Fish, Milano, 19 febbraio 2020 – Courtesy Volvo Car Italia