On the breadline è il titolo del progetto itinerante di Elena Bellantoni con il quale, lo scorso anno, è risultata vincitrice del bando Italian Council promosso dal Mibact.
Il progetto, curato da Benedetta Carpi De Resmini e promosso da Wunderbar Cultural Projects, ha attraversato ben quattro diversi paesi – Italia, Grecia, Serbia e Turchia – coinvolgendo diverse realtà culturali locali nonché gli Istituti di Cultura italiani di Belgrado, Atene e Istanbul.
Il progetto On the breadline ha attraversato Italia, Grecia, Serbia e Turchia; come mai la scelta è caduta su questi quattro paesi? Quali difficoltà hai incontrato nella costruzione del progetto all’interno di realtà così diverse tra loro?
“Breadline” è una parola inglese un po’ ambigua perché è sia la linea del pane – tradotta in maniera letterale – sia la linea di povertà, ed è in qualche modo una linea di crisi che io ho segnato in questi quattro paesi, che sono tutti collegati con la cultura Mediterranea e che negli ultimi anni, per vari motivi, hanno vissuto delle crisi economiche e politiche.
I Paesi che ho scelto di attraversare hanno subito e continuano a subire diverse tensioni: dalla crisi balcanica, a quella greca, alle attuali posizioni turche che mettono in crisi un intero paese e i territori vicini, all’Italia, in particolare la Sicilia, luogo di sbarco e porta del Mediterraneo.
Ho provato a mettere in dialogo questi luoghi “caldi” – Belgrado, Istanbul, Atene, Palermo – che raccontano a loro volta il nostro presente contemporaneo.
Ho deciso di seguire la linea tracciata dal grande scrittore serbo/croato – che incontrai a Roma più di dieci anni fa durante una sua conferenza e scomparso da poco – Predrag Matvejević: «mi sono reso conto di come culture lontane avessero nel grano delle radici in comune. È la storia delle prime farine dei nomadi, delle sacche dei viandanti e del pane dei frati: che è lo stesso dei mendicanti e dei carcerati». Così Matvejević narra il grandioso vagabondaggio del grano nel suo libro Pane Nostro. Questa sua “geopoetica” ha segnato sicuramente l’inizio del mio percorso.
Lo scrittore Burhan Sönmez afferma: «A Istanbul il pane e la libertà erano due desideri che richiedevano di essere l’uno schiavo dell’altro. Si sacrificava la libertà per il pane o si rinunciava al pane per la libertà». L’eco di queste parole è diventato il canto di Bread&Roses mai tradotto in queste lingue.
Ad Atene la parola pane è legata all’Istruzione e alla libertà come slogan che unisce diverse categorie sociali. Queste tre parole – utilizzate dagli studenti del Politecnico di Atene nel 1973 durante le proteste contro il regime dei Colonnelli – sono tornate a significare molto nel momento del disastro economico, cui non si accompagna solo l’impoverimento di settori sempre più grandi della società greca ma anche e, soprattutto, l’abbattimento dei diritti.
In Serbia durante il periodo dell’embargo ci sono state tantissime manifestazioni in cui si chiedeva il pane, e la stessa cosa anche in Turchia, durante le manifestazioni di piazza Taksim.
Il pane e le rose sono i due elementi centrali di un coro di protesta che è poi diventato una poesia e una canzone. Tu fai rivivere queste parole percorrendo strade che rendono possibile un incontro tra diversi paesi. Come hai costruito una relazione tra civiltà così diverse attraverso un canto fortemente connotato a livello politico e culturale?
Il pane diventa l’oggetto grazie al quale costruisco la mia narrazione nell’attraversare i diversi paesi che considero legati in qualche modo dalla cultura mediterranea.
La mia breadline crea un ponte tra civiltà diverse, cresciute su sponde opposte dello stesso mare ma accomunate da un retroterra culturale molto simile.
Il profumo del pane mi ha portato su un testo che è stato il timone di questa ricerca: Bread&Roses, nato come discorso dell’attivista socialista e femminista Rose Schneiderman nei primi anni dieci del secolo scorso, durante uno sciopero di un’industria tessile in Massachusetts. Bread&Roses, per la sua forza evocativa e per i suoi assunti, è diventato prima un poema di James Oppenheim e poi un canto simbolo di lotta per i lavoratori. La rivendicazione del diritto al lavoro e alla bellezza è diventato il leitmotiv che si è incarnato, grazie alla presenza di quattro cori femminili – uno per ogni Paese – nei luoghi da me scelti per delineare la bredaline.
Un semplice pezzo di pane racchiude in se elementi vitali: la terra che genera il cereale, l’acqua che impasta, l’aria che lievita, il fuoco che cuoce. Esso ha ispirato, nei secoli, poeti e scrittori di ogni paese che ne hanno celebrato le virtù, i significati, la simbologia, le suggestioni, i sapori. Il grano è l’oro dei poveri. La grana è anche sinonimo di soldi, così come la pagnotta, la breadline è dunque la linea di povertà.
La “lingua del pane” mette bene in luce il mio procedere, il mio nomadismo, il mio tentativo di tracciare nuove cartografie per far affiorare punti di forza, di attrito e contrasto in questa “sezione di Europa”. Quello che emerge non sono dei conflitti tra questi territori apparentemente così lontani, ma un’umanità che vive la stessa condizione, che dopo la fine delle grandi ideologie, dopo la caduta del muro di Berlino, dopo la guerra nei Balcani, dopo la crisi del 2008 si ritrova sulla stessa ed identica breadline.
La parola cantata viene interpretata da un coro femminile. Quali sono le implicazioni di questo passaggio da una voce sola a un insieme di voci?
La dimensione della protesta, dello sciopero in generale per me è collettiva non individuale, il gruppo ha una forza che il singolo non ha.
L’aspetto “comunitario” è molto importante, il canto di protesta non è singolo ma collettivo, per questo ho scelto di lavorare con dei cori.
A Belgrado ho lavorato con un gruppo di 25 giovani studentesse del Collegium Musicum dell’Università di Beograd. È stato molto intenso per me interagire con loro: dalle prove, alla registrazione in studio per il disco in vinile, alle riprese per il video nel contesto dello stile Brutalista dei Block 23 – nella parte nuova della città – a Novi Beograd voluta dal Generale Josip Broz Tito.
Le ragazze sono diventate le “mie rose”- così le ho definite – che hanno dato voce alla mia immagine-azione, interpretando in modo forte e delicato le parole del testo Bread&Roses.
Sandra Cotronei, che dirige il “Coro Inni e Canti di Lotta del Laboratorio di canto politico della Scuola Popolare di Musica di Testaccio”, ha riscritto tutta la partitura di Bread&Roses e io con ogni direttore del coro: Dragana Javanovic, Maria Michalopolou, Garip Mansuroğlu, Monica Faja, nei vari Paesi che ho attraversato, ho fatto la traduzione e l’adattamento musicale. Sandra mi ha accompagnata in quest’esperienza di scrittura e di ascolto, di note e contralti, di intensità e di senso rispetto a quello che volevo e che avevo in mente.
Queste 100 donne hanno cantato per me, hanno performato per me, si sono messe in gioco, hanno iniziato a camminare. Forse l’unica cosa che resta da fare, in questa idea di futuro che non sta più in piedi da sola e in questo presente complesso e difficile da decifrare, è iniziare a camminare all’unisono: Mentre marciamo e marciamo, noi portiamo giorni grandiosi. La riscossa delle donne significa la riscossa dell’umanità.
La realizzazione di questo progetto è stata finanziata da un bando del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; come trovi la situazione in Italia riguardo ai bandi pubblici? Quanto è importante oggi investire sulla cultura in Italia?
On the Breadline è un progetto che avevo in testa da un po’, che ho deciso di presentare per Italian Council, un bando del Mibact pensato sul modello dei Council inglesi, l’unico che sostiene in modo cospicuo gli artisti italiani. In realtà non sostiene solo gli artisti ma anche i musei italiani, a cui vanno in donazione i lavori prodotti che entrano in collezione. Nel mio caso è l’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, un museo che colleziona stampa e grafica, ma che negli ultimi anni ha iniziato a collezionare anche video: una forma evoluta, contemporanea, dell’incisione. Sono molto contenta di aver vinto questo premio perché il mio non è stato un progetto semplice, andava necessariamente finanziato, perché mette in linea quattro paesi: Italia, Serbia, Grecia e Turchia.
Gli artisti italiani che vanno fuori devono spesso autofinanziarsi. Questi premi, invece, servono proprio a questo: a far circolare l’Arte Italiana, a renderla più visibile e conosciuta fuori dal nostro paese. Io che sono un’artista indipendente e ho sempre fatto tutto da sola non dimenticherò mai la sensazione che ho provato sull’aereo per la Serbia nel dire “sto partendo, questo progetto che avevo in testa – più di due anni fa – sta diventando reale e mi stanno pagando per questo!”. Sono molto riconoscente per questa possibilità e soprattutto per questo riconoscimento del mio lavoro, anche perché in Italia la figura dell’artista non è sempre molto valorizzata, da nessun punto di vista, né legale, né istituzionale. La cultura serve a far circolare le idee, smuovere le coscienze e ampliare gli orizzonti, l’Italian Council ha permesso tutto questo, sono molto soddisfatta di essere arrivata fin qui.
Quali sono gli esiti futuri di questo progetto? Si parla di una mostra nel 2020.
Lo scorso dicembre è uscito il libro del progetto Elena Bellantoni, On the Breadline edito da Quodlibet, presentato al MAXXI con Wunderbar Cultural Project (associazione che ha promosso il progetto), Manuela Contino, che lo ha gestito, e Benedetta Carpi De Resmini, che lo ha curato.
Abbiamo anche un sito con tutte le informazioni e il racconto delle quattro residenze; poi abbiamo, ovviamente, tutti i social.
Insieme alla video installazione a quattro canali, ho prodotto un disco in vinile 33 giri, dei piccoli pani di ceramica, dei disegni a china, molte fotografie e otto performance in solitaria, due per ogni città.
La mostra sarà nel 2020 sicuramente in Italia, poi riporterò anche indietro il lavoro nei Paesi che ho attraversato.
A cura di Alessandra Cecchini
Instagram:ele.bellantoni
Instagram: ele_bellantoni_onthebreadline
Caption
On the breadline – Courtesy of the artist