Davide Bartolomei è nato nel 1990 a Lugo di Romagna. Dopo un diploma in ambito artistico, completa il suo percorso di studi in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. La sua ricerca verte oggi sulle capacità compositive e fisiche della chitarra, allontanata dalla sua primaria funzione. Le sue prime composizioni live si presentano come lunghi loop a canone di rumori di terra, cavi e segnali modulati con pedali da chitarra; successivamente l’idea di noise, più in specifico di organizzazione del rumore, concede sempre più spazio a un ambient più morbido, melodico e bisognoso di armonia.
Dal 2015 ha partecipato a molte esposizioni, sia personali sia collettive, in qualità di sound artist, in spazi e gallerie bolognesi come Gallleripiù, Adiacenze, Localedue.
Attualmente ha portato in tour uno dei suoi ultimi lavori, Panthalassa, flusso primordiale di sonorità immersive.
Iniziamo spesso le nostre interviste con questa domanda: in ambito artistico, quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
La forma è quella “cosa” in continua mutazione, incapace di fermarsi, sempre pronta alla sinergia. È come il mondo stesso; continua a cambiare inesorabilmente e, dopo tre anni di attività al di fuori del mondo Accademico, mi rendo conto che non c’è nulla di più mutevole di essa, ancor più del pensiero, che spesso ne è conseguenza. Detto ciò, devo confessare che in questi anni, sopratutto in una città come Bologna, si è dovuto lavorare molto sul cambiamento delle cose e degli atteggiamenti nei confronti della musica, dell’arte, dell’underground locale.
Pochi anni fa, le serate di un certo tipo te le dovevi inventare di sana pianta con quei quattro amici che, come te, credevano in un qualcosa di ulteriore; si rischiava però di chiudersi in una dimensione domestica del fare. Oggi tutto è spalancato nel lato opposto, a Bologna trovi molti più concerti sperimentali che serate main, molta più apertura legata allo scambio culturale e all’ascolto reciproco piuttosto che competizione e sordità. Di questo, in parte, ne vado fiero anche io.
La nostra rubrica à volutamente chiamata Sound and Vision. Puoi descriverci la relazione che intercorre fra suono e visione?
Il suono, vuoi o non vuoi, ci racconta sempre di un immagine. Un pensiero fugace può ricordare un odore, un momento vissuto, una persona cara, una scelta; più in generale, un’attitudine: non hai mai sentito il sapore di un pezzo? Io si.
Tutti noi siamo spinti, inconsciamente, a cercare legami tessendo reti di sillogismi tra le arti e i sensi, perché la musica dipinge e questo è innegabilmente vero.
La verità sta proprio nell’atteggiamento, sia esso individuale o collettivo; è l’essere umano che forma, è l’essere umano che plasma, ed è sempre l’essere umano che associa; la fratellanza che intercorre e accomuna le arti è proprio dentro di noi, nel nostro vissuto e nelle rielaborazioni che il cervello produce.
Quali sono i tuoi libri, opere d’arte, dischi preferiti? Qual è l’ultimo concerto/mostra/spettacolo che hai visto? Le tue ispirazioni?
E qui arriviamo alla domanda “lista della spesa”. Per quanto riguarda i libri, sono pochi gli scrittori che mi hanno donato un segno; devo ammettere di aver sempre avuto un amore per la poesia e per la sconsideratezza di alcuni nell’usare la parola: miei grandi amori di sempre rimarranno la poesia americana degli anni cinquanta (Ginsberg per intenderci) e il simbolismo francese di fine Ottocento (Rimbaud). D un po’ di tempo a questa parte mi sto appassionando molto a Jodorowski e alla Psicomagia.
Nella sezione opere d’arte, un artista che mi piacerebbe annoverare come grande passione è Bruce Naumann, mi piacciono molto i suoi lavori video come Violin tuned DEAD.
L’artista che più mi ha scosso nei miei anni accademici credo sia stato Jan Bas Ader, un uomo che, senza tanti peli sulla lingua, per l’arte è morto.
Nella lista dei dischi preferiti ci sarebbe da inserire sfilze di nomi da qui a domani mattina. Mi limiterò a dirti che, attualmente, i miei album in heavy rotation casalinga sono Aether dei The Necks (trio jazz-sperimentale australiano) e Estórias para voz, Instrumentos acústicos e Eletrônicos di Jocy De Oliveira, pianista, compositrice e artista multimediale brasiliana.
Di concerti o spettacoli, facendo questo mestiere, ne macino praticamente tutte le settimane, e non sempre si ha la voglia di prenderne nota. Il concerto con la c maiuscola che mi piace ricordare si è tenuto nel maggio 2016 al Teatro dei Rinnovati di Siena con Ben Frost e Daniel Bjarnason, accompagnati dall’Orchestra della Toscana (24 archi più 2 percussionisti) realizzato con un visual di Mr. Brian Eno. Ho assistito a un’esecuzione completa e tremendamente magica di Music for Solaris che ricorderò per sempre.
Chiudiamo con le ispirazioni. Secondo te che cosa ispira un artista? Cosa lo muove in questo mare? Devo dirti che sono molteplici le fontane a cui bevo.
Non saprei dire di preciso chi o cosa, di più o di meno, mi ha ispirato nella vita: amo molto l’atteggiamento delle persone, la forma, anche la solitudine della natura: il suono dell’acqua, le cose primarie, il senso di origine, spesso mi hanno ispirato. Sentirsi la libertà addosso credo sappia ispirare molti in questa terra.
Cosa non ti è piaciuto ultimamente? (sempre artisticamente parlando)
È vero, stranamente si tende poco a esprimere ciò che non ci piace, scegliendo la semplice strada del bello, socialmente più accettata. L’ultimo concerto sgradito, se così vogliamo chiamarlo, si è tenuto due settimane fa qui a Bologna, realizzato da una band HC Punk di cui non citerò il nome per evitare un’inutile cattiva pubblicità. La serata mi ha fatto capire quanto l’hardcore, e tutti i modi di fare pre-impacchettati nella musica e più in generale nella vita, siano vecchi e stantii ormai; grazie al cielo tutto si trasforma.
Tra le tue influenze: Aidan Baker, Spaceman 3, Brian Eno. Come ti sei avvicinato alla musica? Un tuo primo ricordo?
Il mio primo ricordo legato alla musica risale all’infanzia e al piano, quando nel mio piccolo borgo d’origine, in bassa romagna, venne un maestro di musica per insegnare pianoforte ai bambini del paese.
Alla musica mi sono avvicinato, gradualmente, in ogni fase della vita attraverso differenti modalità, influenzato da ascolti ed esigenze del momento, partendo dalle scuole medie dove conobbi la batteria e forse anche il punk rock, valicando le superiori, in cui mi innamorai della chitarra come strumento, arrivando poi all’Università dove ho affinato le mie esigenze compositive e artistiche appassionandomi a generi come l’ambient e l’elettronica.
Come racconti Panthalassa a chi si avvicina, per la prima volta, alla tua produzione?
Panthalassa è più che altro un pensiero, un viaggio lungo e fluido, primordialmente eterno. È una chitarra super trattata che non si ferma mai, che procede con incedere regolare per ogni scena dipinta. Il lavoro si presenta come una composizione unica di 40 minuti per chitarra e pedali in cui il flusso continuo di droni apre la scena e da impronta al tutto in loop continuo per poi estinguersi nel nulla assoluto.
All’artwork ha lavorato Nicola Tirabasso, sound e visual artist davvero molto interessante. Come concept, dopo tutta una serie di tentativi sbagliati o per lo meno abbozzati, il disco ottico ci è praticamente piovuto dal cielo per coerenza e integrazione al lavoro audio.
L’occhio in copertina, così distorto e distopico, e il disco sul retro, contrariamente regolare ed arcaico, hanno avvolto e chiuso un lavoro altrimenti nudo.
A cura di Federica Fiumelli
www.soundcloud.com/davide-bartolomei
Pagina Fb: DBoffpage
Caption
Davide Bartolomei – Performance presso Bastione della Cavallerizza Reale, Torino – Courtesy l’artista
Davide Bartolomei – Live at CasaOrfeo – Courtesy l’artista
Davide Bartolomei – Courtesy l’artista