Indisciplina + Giorgio Verzotti



Giorgio Verzotti. Fotografia di Andrea Rossetti


Manuela Piccolo: Questa nostra conversazione è il proseguimento della ricerca che abbiamo fatto insieme per Indisciplinata+, libro edito da Sartoria Editoriale e postmediabooks; abbiamo usato questo gioco di parole per parlare di spostamento all’interno delle discipline, in-disciplina, cioè all’interno delle discipline. Mentre il libro si componeva ho iniziato a chiedermi: se la definizione di arte contemporanea corrisponde a “abbandono della tecnica”, cosa succede a chi la tecnica non la conosce proprio? Per me è quello che sta succedendo oggi. Nel libro faccio una serie di interviste, a Lea Vergine, Armando Marrocco, Franco Vaccari, Cesare Pietroiusti, Premiata Ditta, e dopo queste sto rivolgendo domande simili ad artisti giovani emergenti, proprio qui su Forme Uniche, e ho notato che si tratta non di un abbandono della tecnica ma di un totale disconoscimento. La maggior parte degli artisti a cui mi approccio, sono artisti che non hanno studiato pittura, scultura, video, non hanno abbandonato una tecnica, non l’hanno proprio mai conosciuta. Cambia molto. Per fare un esempio, Duchamp era un bravissimo pittore, che smette di utilizzare la tecnica della pittura e si applica ad altro. Quindi, di nuovo, mi chiedo se un cambio di definizione non sia necessario, perché credo che il termine “arte contemporanea” non sia più sufficiente, perché non è più abbandono della tecnica. Sembra solo una questione semantica, ma ricordiamoci che le parole sono importanti, oggi più che mai. 

Giorgio Verzotti: Quindi ti confronti con chi ha fatto l’Accademia o no?

P: Ho intervistato solo chi non ha fatto l’Accademia, chi non ha fatto studi artistici specifici. Nel libro: Pietroiusti laureato in medicina, Vaccari laureato in fisica, e poi ci sono altre storie, come quella molto importante di Marrocco, che già da giovanissimo andava in bottega. A oggi gli artisti che ho intervistato non hanno fatto l’Accademia, c’è qualcuno che poi ha fatto la specialistica in Accademia, ma la maggior parte ha studiato botanica, ingegneria, psicologia. Insomma, non sono mai passati dallo studio fondamentale delle discipline artistiche.

V: Questo non lo sapevo perché ero convinto che artisti più giovani, a parte chiaramente le eccezioni, l’Accademia l’avessero fatta. Nella mia generazione c’erano artisti come Stefano Arienti che studiava agraria o che venivano da altre facoltà. In quel caso però, non parlerei tanto di abbandono della tecnica, ma di sottovalutazione della tecnica, nel senso che studiavano e imparavano altro, però non se ne facevano niente. Non fondavano sulle tecniche apprese durante gli studi il linguaggio principale della loro espressività. Magari sanno dipingere, disegnare e scolpire però poi fanno tutt’altro, fanno collage, fanno frottage. Il caso di Stefano Arienti è il più significativo in questo senso, perché poi le sue tecniche sono totalmente inventate, totalmente riappropriate, senza bisogno di aver fatto l’Accademia, sono appropriazioni e basta, che sono molto simili a quelle che se non si studiano in accademia, si possono derivare dall’Accademia. Per esempio, in Accademia non ti insegnano il ricalco, ti insegnano a disegnare. Però molti artisti ricalcano perché, seguono l’esempio di Boetti, come fa Stefano che mette il pongo sul colore, non è una cosa che s’impara in Accademia, però potrebbe essere derivata da un insegnante di scultura che ti fa manipolare la plastilina. A questo punto, non è che abbandoni la tecnica, però la lasci da parte e la recuperi come piace a te – faccio le cose col pongo perché è più divertente. Anche nel caso di Marcel Duchamp, lui non è che abbandona la pittura, semplicemente la mette da parte, fa altre cose e poi scopre la fotografia, l’installazione, e quando la collezionista gli chiede di fare un dipinto, fa un dipinto anche molto bello, con il fregio orizzontale, dal titolo “Tu m’”. Quindi, ogni tanto poi la tecnica arriva, ritorna. Non è un abbandono, nel senso di una maledizione della tecnica – mi allontano da questo mondo accademico, faccio altre cose, però poi ritorno a usarlo e magari è proprio quel mondo accademico che mi stimola a cercare altri punti. Non disegno, ma faccio il ricalco perché è più facile e divertente, più immediato. Anche per questi studenti di cui mi parli che hanno studiato altro, però si sono affacciati all’Accademia per imparare delle tecniche minime, per esprimersi, più che altro non per ignorare o no la tecnica, ma per tenerla lì come una cosa di riserva. Cioè, loro ignorano lo specialismo, la specialità, non sono pittori, scultori o disegnatori. Sono artisti. Poi, se necessario, disegnano, dipingono, per come sanno. 

P: Ritorno su Pietroiusti; mi raccontava recentemente, alla mostra Spazio/Territorio da lei curata all’Archivio Agnetti, che quando ha iniziato non sapeva disegnare, mi ha detto “non sapevo neanche tenere una matita in mano”. Quindi la differenza esiste, intendo tra chi conosce e chi disconosce la tecnica. Capisco che forse utilizzare la parola abbandono è un po’ troppo radicale?

V: Sì, troppo definitiva.

P: Io intendo dire che evidenzia sostanzialmente questa differenza, tra chi non ha mai tenuto una matita in mano, e non sa quale sia l’educazione al disegno, inteso come lo studio del disegno che poi mi può portare, come dice lei, a mettere da parte e a riutilizzare l’esperienza di aver imparato a farlo o di aver potenziato la dote naturale – so perfettamente tenere una matita in mano, ma decido di tenerla al contrario e disegnare con la gomma-, e chi non ha mai vissuto questa esperienza. La parola abbandono serve solo a evidenziare questa netta differenza.

V: Il non saper tenere la matita in mano è già dai tempi delle avanguardie storiche che va bene, cioè, io non so disegnare e quindi disegno come mi capita. Per esempio, i dadaisti mettevano in discussione lo specialismo, appunto, la disciplina, magari sapevano disegnare, ma si rifiutavano di farlo. Di artisti che non sanno disegnare e sono diventati famosi ce ne sono molti, perché disegnano in modo diverso, disegnano il loro mondo creativo. E poi stavo pensando, ci sono anche quelli che sanno disegnare, per esempio Wim Delvoye, che è più o meno della stessa generazione di Cesare Pietroiusti, ed è un disegnatore eccellente, però non disegna. Lo so perché quando abbiamo fatto una mostra a Rivoli, ho fatto un catalogo piccolino quadrato e lui, sul frontespizio, mi ha fatto un disegno, in un attimo con la biro, perfetto, di uno di questi stemmi che lui fa fare agli artigiani. Non ha imparato in accademia, proprio ce l’ha geneticamente. Come il mio amico Claudio Valazza, che è diventato un restauratore rinomato di tele del cinquecento e seicento, e che fin da piccolo sapeva disegnare benissimo e io, invece, non sapevo fare nulla. Insomma, direi che questi due estremi, il bravo disegnatore e il pessimo disegnatore, si equivalgono. Perché anche un disegno fatto male secondo i canoni, può essere espressivo tanto quanto un disegno fatto bene, o al contrario, magari non ci dice niente anche se fatto bene. La generazione di Cesare era proprio la generazione in cui non saper disegnare andava benissimo. Ricordo che quando ho cominciato, già allora le gallerie e i galleristi dicevano “Sa disegnare? Si? No? Beh, ma non importa. L’importante è che ci dica qualche cosa.” 

P: Sostanzialmente, lei mi dice che dall’avanguardia in poi questa cosa non è cambiata. Ci sono sempre stati quelli che conosco la tecnica e quelli che la disconoscono. Non è cambiato molto.

V: In conseguenza di questo, credo che l’insegnamento di un docente dell’Accademia, che va a insegnare come si dipinge, non sia più quello che era tradizionalmente, e non parlo dell’Ottocento, parlo proprio fino al secondo dopoguerra. Insomma, quando esplode tutto, in Accademia l’insegnante di pittura ti dice che per dipingere puoi anche buttare il colore sulla tela, come diceva Pollock e va bene lo stesso, perché è necessario vedere come proponi tu le cose. Il problema non è come lo fai, ma che cosa fai, se fai un paesaggio o una natura morta, come ho già visto mille volte ti dico non mi interessa, se ci metti del tuo può essere interessante, puoi aver aggiunto qualcosa. Non è soltanto una questione di tecnica, il sapere o il non saper disegnare, non è solo il disegno riconoscibile, magari figurativo, oppure anche un disegno o una pittura astratta, però molto armoniosa, formalmente, insomma, ineccepibile. È cosa ci metti dentro. Non a caso questi artisti non provengono dallo studio dell’arte o dalla storia dell’arte, però si esprimono nell’arte, perché l’arte è diventata un campo difficile da definire. Ogni artista ha una sua visione del mondo che non è la visione dell’arte, che non è un universo formale, un universo di forme, è un universo di contenuti, spesso sono questi contenuti che impongono che l’artista faccia una certa cosa piuttosto che un’altra. Fabio Mauri è anche un pittore ma la sua pittura figurativa e astratta se la teneva per sé. I quadri che abbiamo visto nella mostra qui a Milano, su carta o su tela, erano considerati da lui un repertorio personale, non li faceva vedere alla gente. Mostrava le installazioni, le performance, le foto, le sculture, perché quello era il suo modo di esprimersi, perché il suo universo era un universo in cui le cose combaciavano, che confinava tra arte, storia dell’arte e consapevolezza della storia dell’arte e della filosofia. Non era solo un repertorio informale, era un repertorio contenutistico. E per esprimere questi concetti lui faceva performance o installazioni, faceva film, o operazioni filmiche. Questa interazione, quindi, era il suo mondo culturale, quello che lui voleva esprimere esigeva quel tipo di linguaggio e non un altro. Cesare è un po’ la stessa cosa, ha cominciato con la Galleria Jartrakor di Roma, dove c’era Sergio Lombardo, che lavorava a delle pratiche pittoriche stocastiche, come dice lui, casuali, molto legate allo studio della psicologia. Attraverso questi studi di psicologia della percezione faceva le sue opere. Aveva anche creato un cenacolo a Roma che era questa galleria, aveva coinvolto alcuni artisti, tra cui Cesare, che forse ha cominciato la sua carriera lì. Cesare Pietroiusti in quel canale di espressività ci metteva dentro i suoi contenuti che vengono dagli studi di psichiatria clinica, non vengono da altro, solo da lui, il suo mondo, il suo universo culturale, che gli impone di fare questa cosa piuttosto che un’altra. Saper disegnare nel suo caso non sarebbe servito a molto. Credo che per molti di questi artisti di cui mi parli sia la stessa cosa, loro hanno qualcosa da comunicare che viene dalla biologia, che viene dall’ecologia, che viene dalla politica, che viene dalla filosofia e non scelgono di diventare docenti di una cosa o scrittori e saggisti di un’altra, ma scelgono un canale, che è quello dell’espressività artistica e prendono alcuni elementi di qua e altri di là. Un’artista si chiede come esprimo quella determinata cosa? Con un’installazione, un’installazione sonora, oppure la fotografia, oppure la pittura? Allora imparo a fare le fotografie, imparo a costruire le installazioni, mi informo circa qualcosa che hanno già fatto cento volte e imparo da quelle esperienze. Artista lo diventi perché hai un’urgenza, un’urgenza di comunicare il linguaggio della mente, prendendo spunto dalle cose che hai vissuto o appreso, non perché hai una tecnica in cui sei bravo da far vedere. 

P: Proprio per questo le chiedo – oggi che le parole sono considerate importanti e le definizioni intaccano le nostre vite – se questa definizione, arte contemporanea, magari non faccia sentire artisti che non vengono dal mondo dell’arte inclusi nel mondo dell’arte. Parlo anche del come all’interno del mondo dell’arte venga visto un giovane pittore che non ha studiato all’Accademia pittura, o come venga visto da una galleria o da un museo un pittore che ha studiato pittura che poi decide di fare scultura. Durante queste interviste, mi è capitato di raccogliere l’esperienza di qualcuno a cui è stato detto “tu sei fotografo, non ci interessano le tue sculture”, come se la trasversalità del mondo dell’arte, che ormai dovrebbe essere assodata, non esistesse. Come se un pittore fosse solamente pittore, non un’artista. Non come dice lei: ho una cosa da dire e mi sento di formalizzare in quel determinato modo, e magari curiosare in una tecnica che non è quella mia specifica con cui sono stato riconosciuto o sono stato apprezzato in una determinata situazione. Lo si dovrebbe poter fare senza sentirsi limitati all’interno di una definizione.

V: Certo, su questo non ci piove. Possiamo essere tante cose insieme, quindi credo che oggi nessuna persona sia autorizzata a dirti no. “Tu fai fotografia, quindi le tue sculture non ci interessano”, non ha senso, non è più l’epoca in cui ci si riconosce attraverso un particolare linguaggio. Pur esistendo fior di artisti che fanno solo fotografia o che fanno solo scultura, non fanno neanche disegni. Ma ci può essere la solita ragione commerciale, una galleria può dire: “io con te vendo bene le foto”, allora forse è il caso di cercarsi un’altra galleria. Oppure si può diversificare. Ad esempio, Filippo Manzini fa queste sculture site-specific che non riesce mai a vendere, ovviamente perché dovresti comprare lo spazio, però poi fa le foto e le vende. 

Questo è l’aspetto commerciale che è sempre da tener presente, però non deve indirizzare la ricerca, se fai fotografia e poi ti viene voglia di fare scultura, non ti devi limitare. Non è più di moda dire no, succedeva ancora negli anni Sessanta, ci siamo ribellati a questo tipo di diktat. Non ci sono più le gallerie come la Sonnabend che stipendiava artisti a condizione però che facessero quello che voleva lei, nella quantità che voleva lei. Anche Gagosian si deve adeguare, non è lui che dice cosa devi fare e l’artista che dice ho fatto questo, il suo compito è vendere.

P: Secondo me lei è più avanti di quello che crede, o i tempi sono un po’ indietro. È per stravolgere questi pensieri che credo sia necessario cambiare alcuni termini della contemporaneità. Il fulcro della ricerca è proprio evitare questa cosa, questo errore nel sistema che ti impone che se sei nato fotografo, devi continuare a fare fotografia e siccome non voglio che il sistema faccia questa cosa, io lo prendo in giro, gli cambio il nome. 

V: Io non credo di essere più avanti della mia epoca, è che mi riferisco a situazioni trainanti, diciamo Gagosian, ma anche altre gallerie meno commerciali, altrettanto importanti, come Marian Goodman, nessuno di loro si permette di dire a Matthew Barney devi fare questo, perché se no non vendo.

P: Però dobbiamo scalare questo discorso, un giovane artista emergente non può permettersi di fare questo discorso.

V: Matthew Barney è stato un giovane artista emergente, ha cominciato in California, non aveva una lira. Un artista marginale, ma è venuta fuori la sua forza però artistica. Anche un giovane artista oggi se ha le palle deve dire di no a questi meccanismi. Diciamo le cose come stanno, in Italia ha più difficoltà rispetto alla scena internazionale, Europea o Americana, ma è anche vero che non c’è più questo rapporto di padronanza gallerista-artista, ormai è assodato. In Italia ci sono gallerie marginali, provinciali e di serie B che possono fare questi discorsi, ma perché non sanno neanche loro cosa significhi emergere. Quindi non sono avanti con i tempi, parlo di situazioni avanzate. 

P: Ma quanti giovani artisti emergenti conosce che sono con Gagosian o con la Goodman?

V: Nessuno emergente, attivo si, sei già emerso se sei lì. Gagosian a Roma fa delle mostre ad artisti italiani che non ho mai sentito. 

P: Sì, vero. 

V: Però, forse, sono anche gli unici. Non ho mai sentito la Gladstone o Hauser & Wirth fare queste cose con giovani sconosciuti, sono soltanto le gallerie di serie B che ti dicono quello che devi fare. 

P: Andiamo oltre, in questo spostamento\movimento di giovani artisti nelle varie discipline, cosa ci vede? Cosa vede in questa necessità di indagare tutti i campi della conoscenza? Tutte le complessità?

V: Le complessità del mondo? È così anche per noi critici, non è che leggiamo solo libri di storia dell’arte o di critica d’arte, anzi sono quelli che io leggo e mi interessano meno. Leggo libri sull’Ucraina, libri di filosofia, di sociologia, per capire questo mondo e le sue complessità, che ti obbligano ad avere un’apertura mentale che ti faccia interpretare almeno alcuni aspetti di questo mondo complesso. Non serve aver studiato una serie di discipline tra cui l’arte, se non hai studiato anche storia, sociologia, antropologia, psicologia, psicanalisi, tutte cose che abbiamo assimilato non solo all’università. E poi, è proprio perché il mondo è sempre più complesso che hai la necessità di essere aggiornato. Per esempio, c’è tutta questa corrente della tecnologia digitale che non mi ha mai interessato e mai mi interesserà, ma magari in futuro diventa una cosa interessantissima e anche quello andrebbe compreso. Come la scienza, la fisica delle particelle, materia che diventa sempre più importante, molti artisti ne sono conoscitori acutissimi. Lo stesso Stefano Arienti, Luca Pozzi e altri le mettono nel loro lavoro. Ci sono delle equazioni scientifiche rese immagini visive, è proprio un linguaggio che non mi entra in testa ma fanno parte della complessità della realtà in cui loro si cimentano, un po’ come noi. Noi lo facciamo come strumento per interpretare quello che fanno loro e loro, per esprimere quello che sentono di esprimere. 

A cura di Manuela Piccolo


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Giorgio Verzotti – Courtesy Giorgio Verzotti