HYBRIDARCHIPELAGO » Intervista a Pietro Ballero

Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Questo mese mi confronto con Pietro Ballero, nato a Torino nel 1992, vive e lavora in Olanda. Nel 2017 ha preso parte come mediatore culturale al progetto Studio-Venezia di Xavier Veilhan per La Biennale di Venezia. La sua ricerca è sensibile a dinamiche socio culturali e di rilevanza antropologica che convivono con un fare ideologico e ironico che da vita a installazioni site-specific cariche di significato.


Una reazione capace di innescare una costellazione è alla base stessa di questa rubrica; queste conversazioni sono inquadrate per fare emergere la scena dei giovani artisti italiani che lavorano in pianta stabile all’estero. Le geografie ibride che si formano e il loro vocabolario creano un arcipelago di ricerche collegate e/o intrecciate. In architettura l’approccio del pensiero arcipelagico è una reazione al predominio delle modalità di indagine continentali. Può essere in qualche modo incanalata in questi termini la tua scelta di trasferirti in Olanda?

Una lenta navigazione, obbligata dal soffio del vento e dalle onde del mare, fra le isole che compongono un vasto arcipelago può essere una buona metafora per visualizzare il percorso dei miei ultimi anni.
Ho spesso percepito un impulso alla navigazione, un desiderio di spiegare le vele, di salpare per un porto sconosciuto, di prendere il largo per delle rotte inesplorate.
Dopo tre anni trascorsi all’Accademia Albertina di Torino ho avuto la fortuna di frequentare un anno presso l’École supérieure des arts Saint Luc di Liegi, in Belgio. Sebbene arrivassi da una formazione prettamente artistica, qui sono stato introdotto al mondo del graphic design e della comunicazione: nonostante all’epoca non fosse stata una scelta completamente consapevole, ma probabilmente dettata dall’esigenza e dalla fretta di partire, credo che a livello formativo sia stata un’esperienza molto importante, che mi ha permesso di riempire la stiva della mia imbarcazione con delle competenze che tuttora contribuiscono a dare forma al mio linguaggio. L’anno a Liegi è stato anche la mia prima esperienza fuori dalle mura domestiche, ho spremuto fino al midollo la ricchissima proposta culturale che offriva questa stranissima città.
In seguito ho fatto rotta verso un altro porto, quello di Venezia. Il corso magistrale di Arti Visive presso lo IUAV è stato per me un importante spartiacque fra un universo “art&craft” un po’ naif e il saper riconoscere con più consapevolezza la professionalità di un artista visivo. Le lezioni con Alberto Garutti, in particolare, sono state una ginnastica faticosa ma assolutamente necessaria a comprendere la serietà che sta dietro al lavoro di un artista.
A Venezia ho avuto anche l’immensa fortuna di vivere, quotidianamente e per ben 173 giorni, un luogo denso come quello della Biennale, lavorando per il padiglione di Xavier Veilhan. Si è trattato di un’esperienza umana e professionale che mi ha sicuramente segnato e arricchito, permettendomi di spiare il dietro le quinte di un evento importantissimo e di osservare l’ecosistema di un pianeta apparentemente molto lontano.
Finita la Biennale, ho approfittato del vento a favore e ho salpato alla volta di Parigi, per un esperienza presso l’École Supérieure des Beaux Arts. È stato emozionante leggere il nome degli artisti che tenevano classi in un’istituzione davvero importante. Ma ciò di cui più ho fatto tesoro è stata la vivacità della città: mostre, musei, eventi, esposizioni, ogni giorno c’era uno stimolo nuovo di cui approfittare.
Tornato a Torino ho ormeggiato la barca per un po’, prendendo uno studio e cercando di concentrarmi sui miei lavori. Ma il COVID è stata una di quelle tempeste in grado di mettere in crisi qualsiasi lupo di mare, confondendo le rotte e obbligandoci a ridisegnare le mappe delle nostre navigazioni. È in quel momento che ho deciso di spostarmi a Utrecht, nei Paesi Bassi.

Potresti introdurci la scena artistica di Utrecht, e di Amsterdam?

Sono sempre stato molto attratto dai Paesi Bassi. A partire dalla mia esperienza in Belgio ho avuto modo di visitarli in lungo e in largo, l’impressione che avevo avuto è che si trattasse di un luogo estremamente fertile in campo creativo, dove gli artisti sembravano essere aiutati e le loro carriere supportate concretamente. Mi sono trasferito in piena pandemia, in un periodo decisamente complicato per tutti, in cui le istituzioni culturali, anche in un paese come l’Olanda, si sono dovute trovare a fare i conti con un panorama davvero desolante.
Questo periodo storico mi ha costretto a rallentare, ma per la prima volta in vita mia non mi sento completamente travolto dalla sensazione di essere in ritardo. Malgrado la pandemia, malgrado le piccole e le grandi tragedie personali, qui ho davvero trovato una condizione di grande serenità, e sto cercando di porre le basi per un progetto a lungo termine.
Ora che l’orizzonte, per lo meno in termini pandemici, sembra temporaneamente rasserenato, sto cercando di esplorare e spremere quanto questo paese ha da offrire in campo culturale.

Che progetti stai delineando?

Nei Paesi Bassi c’è una bolla immobiliare davvero senza precedenti, che oltre ad aumentare un divario apparentemente incolmabile tra ricchi e poveri, influenza inevitabilmente anche l’urgenza di trovare dei luoghi reali che ospitino quelle germinazioni artistiche che credo siano necessarie. Per questo motivo sto cercando di mettermi in gioco provando a ragionare sul concetto di spazio: l’esigenza di confronto, di aprire un dialogo nel dibattito contemporaneo, ha portato me e alcuni miei compagni di viaggio a ricercare dei luoghi nuovi, non convenzionali, capaci di trasmettere un messaggio, o capaci di essere il messaggio stesso.



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Quale è il ruolo dell’artista?

Continuare costantemente, ogni giorno, a porsi questa domanda.
Non allontanarsi dalla realtà della vita.
Ascoltare il battito cardiaco del mondo. “Mettere al mondo il mondo”!

Come riesce l’artista a porsi attivo nel contesto urbano, dialogando con la complessità della realtà? Penso alla realizzazione dell’installazione luminosa Èamore vero, commissionata e realizzata nel centro storico di Salerno, nel 2021.

A Salerno ho avuto l’onore di vincere il primo bando di Lumina, volto a costruire una mappa di interventi luminosi capaci di illuminare luoghi del centro storico per svelarli sotto una nuova luce, con la prospettiva di attivare un percorso che possa consentire a questi luoghi di essere nuovamente parte dell’immaginario urbano collettivo. Attraverso le installazioni luminose che verranno prodotte dagli artisti, si intende raccogliere riflessioni sul patrimonio storico culturale e su come sia esso percepito dagli abitanti. Non si tratta della manifestazione di luci organizzata dalla città, ma di un tentativo da parte dell’associazione Blam di reagire a essa con una proposta che generi una maggiore partecipazione.
Le scritte sui muri sono, da tempi lontanissimi, perennemente al centro dei più feroci dibattiti sul decoro urbano. Ormai, da quando la street art e il graffitismo sono stati riconosciuti a tutti gli effetti come un fenomeno mainstream, anche un pubblico più scettico è pronto a riconoscere un valore di “bellezza” (o di presunta tale) nei confronti di ciò che verosimilmente è stato fatto con intento artistico. Eppure, passeggiando per qualsiasi centro cittadino, non si fatica a trovare sparsi sui muri che ci circondano frammenti amorosi, rigurgiti politici, tag venute male o esultanze calcistiche: di queste testimonianze ben pochi ne riconoscono un qualche valore, se non quello di degrado, di bruttezza.
Da sempre, come scrive Enrico Manera su Doppiozero, “il muro si fa tabula e lavagna, porta fuori nello spazio comunicativo ciò che usualmente si custodisce segretamente, come tratto intimo del sé”. Le scritte sui muri, quelle brutte, quelle dei “vandali”, sono cicatrici della città che ogni giorno ci raccontano storie, umori, malesseri, mettono in luce una personalità cittadina.
Con l’intento di svelare sotto una nuova “luce” quei decori/orrori urbani che, sotto forma di scritte sui muri, sono una presenza quotidiana all’interno dell’immaginario collettivo, l’intervento partecipativo che ho provato a proporre a Salerno è stato un’esplorazione urbana del quartiere, sulla scia della deriva psicogeografica suggerita dai situazionisti, mirata alla mappatura e all’archiviazione di quelle tracce vandaliche presenti sui muri del centro storico. Il proposito era il tentativo di osservare, anche solo per un istante, ciò che ci circonda da un altro punto di vista; provare ad avere un senso di straniamento nei confronti di ciò che ogni giorno è di fronte a noi. Fare esperienza, nel senso etimologico del termine, ottenere cognizione mediante l’osservazione, lo studio, la ricerca, di ciò che comunemente è considerato degradante. Ecco che una semplice scritta può acquisire differenti percezioni a seconda del punto di vista: se per qualcuno non è altro che uno scarabocchio sul muro, per qualcun altro può essere il motto con cui comincia ogni giorno le sue giornate.
Il materiale raccolto è diventato materia viva su cui riflettere e lavorare insieme per comporre un “Manifesto Poetico”. Durante questo laboratorio, gli abitanti hanno scomposto e ricomposto le scritte raccolte per convertire un “gesto vandalico” in una dedica d’amore alla propria città.
A conclusione di questo periodo di residenza è stata inaugurata l’installazione luminosa: È amore vero illumina l’omonima scritta presente sul muro dell’ex chiesa dei Morticelli erigendola quale statement, interpretando una dichiarazione d’amore all’edificio storico – rigenerato dal 2018 dall’associazione Blam – e all’intero quartiere. Il proposito non è quello di giustificare né di mistificare tali presenze, ma è il tentativo di osservare, anche solo per un istante, ciò che ci circonda da un altro punto di vista: provare ad avere un senso di straniamento nei confronti di ciò che ogni giorno è di fronte a noi. L’invito è quello di esercitare lo sguardo e, contemplando sia il sacro sia il profano, tentare di abitare il paradosso in cui viviamo.

Cosa possiamo imparare dall’arte al di fuori dal contesto museale?

Non è necessario stare a sottolineare l’importanza che la scienza riveste nell’osservazione e nello studio delle stelle, dei cieli e dell’universo; eppure, quanto è bella quella sensazione di stupore, pienezza e meraviglia che chiunque può provare sotto a un cielo stellato?

A cura di Camilla Boemio

Instagram: pietro_ballero


Caption

È amore vero, 2021 – Site-specific installation, neon, poster, 270×30 cm / 200×300 cm – Courtesy l’artista, ph Vicky Solli, Luca Garelli