Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Questo mese mi confronto con l’artista Iacopo Pinelli, nato nel 1993 a Gavardo in provincia di Brescia, cresciuto nelle Marche. La sua recente mostra alla Shazar Gallery, attraverso installazioni e opere scultoree, ha posto una serie di spunti riflessivi sulla crisi della società, sulla quotidianità e sulla memoria giocando e plasmando materia e concetto.
Quanto la memoria del territorio dove sei cresciuto, le Marche, influenza la tua ricerca artistica?
Penso che ognuno di noi sia condizionato dal luogo in cui vive. Da sempre sono stato interessato allo studio sociale e antropologico e dalle problematiche che ci riguardano; il territorio mi ha sempre dato stimoli sin dai miei primi lavori che affrontano la realtà rurale in cui vivo, campi e vallate hanno innescato queste prime ricerche dove materiali tipici e memoria del luogo erano i protagonisti. Attualmente la mia ricerca è cambiata molto ma il territorio inteso come humus socio culturale rimane il punto di partenza. La quotidianità e i gesti di ogni giorno si trasformano, nei miei lavori, in spunti di riflessione.
Vivere in un luogo lontano dai rodati centri d’arte crea quel silenzio che può aiutare le idee e la propria ricerca conducendola verso una pratica quasi contemplativa?
Certamente può apparire meno vantaggioso, per un artista giovane, vivere ai confini del mondo rodato dell’arte e dei sui meccanismi. Il silenzio è per me alla base dell’introspezione e fulcro di pensiero. Senza il silenzio e la contemplazione non credo riuscirei a lavorare e a mantenere una purezza linguistica. Per contro, la solitudine, l’isolamento, la scarsa comunicazione e confronto potrebbero influenzare negativamente il linguaggio artistico, però questo fa parte del gioco e bisogna accettarne coscientemente il rischio. Sono convinto che l’assenza di caos mi consente di essere meno influenzato dai meccanismi del quotidiano che ci allontanano sempre di più dal nostro spazio libero, privato e sacro.
La tua mostra a Napoli ha affrontato il vuoto della vita, la perdita delle certezze. Un luogo scarno come la battigia nella quale riemergono oggetti, fossili, reliquie di un passato vicino, ormai decadente presente. Vuoi introdurci questo progetto?
La mostra è stata meditata per lungo tempo causa le ultime vicissitudini pandemiche. Nelle sporadiche passeggiate, quando era concesso mi recavo al mare imbattendomi più volte in questi oggetti riemersi o meglio abbandonati e rifiutati; penso rappresentasse molto la situazione attuale, fossili in un deserto solitario, chiusi nel nostro individualismo e in una sfrenata battaglia per non affondare come un grido taciuto di una società in declino. Da queste riflessioni e dallo studio di Zygmunt Bauman e Guy-Ernest Debord, e dalla lettura più recente della Società della performance di Gancitano e Colamedici, nacque l’idea della mostra Sui corpi galleggianti.
Il titolo è stato preso dal primo trattato sull’idrostatica di Archimede. Già qui emerge il cortocircuito che definirei nel seguente modo, utilizzando le parole a me care di un critico che si è occupato del mio lavoro: “un mondo che ci incoraggia a gridare e a esprimerci con tutti i mezzi a nostra disposizione, con l’idea che tutto è possibile, perfetto e raggiungibile senza apparente sforzo. Ma spesso all’atto pratico del vivere, non tutti hanno modo di esprimere sé stessi appieno, nuotando in una direzione precisa e coerente del mare delle opportunità, ma al contrario, spesso ci si vede costretti a galleggiare nelle difficoltà del quotidiano, sigillate e ben celate dietro l’effimera abbondanza e al precario benessere del nostro tempo colonizzato”. Oltre ai “corpi galleggianti” alla Shazar ho esposto delle pitture realizzate utilizzando una tecnica di impressione della luce, che riflettono sulla relazione tra l’io e la sua percezione del tempo all’interno della Società delle immagini. Un tempo oltreumano, che ci vede sempre iperconnessi, abituati a cambiamenti costanti e repentini.
La tua pratica è abilmente in bilico tra proiezioni estetiche fantasiose, nelle quali il ready-made diventa un rimando alle allusione al passato. Cosa ne pensi?
I lavori che realizzo possono essere definiti allegorie di una contemporaneità allo sbando dove la realtà, e ciò che dovrebbe essere vissuto direttamente, si sta allontanato in una rappresentazione. Gli oggetti che io propongo hanno lo scopo di impattare con immediatezza e violenza lo spettatore in modo tale da indurlo a una riflessione sulla sua contemporanea condizione. Per cui, necessariamente, a questi oggetti affido un ruolo che può sembrare anche diverso da quello originale.
Chi sono stati i tuoi maestri?
Se parliamo di maestri d’arte, di artisti storicizzati, direi che si tratta di artisti che all’inizio del mio percorso mi hanno positivamente influenzato per il loro approccio materico. Alberto Burri, Anselm Kiefer, Jean Dubuffet, oltre a una infinità di altri che non cito. Considero i veri maestri persone incontrate nel mio percorso, non solo artisti ma anche tecnici o artigiani. Uno dei più grandi maestri è stato mio padre, che oltre al suo lavoro professionale, non perdeva occasione di maneggiare qualsiasi strumento o attrezzo per aggiustare, costruire e ricostruire, soprattutto in ambito edile. Questa sua destrezza, unitamente alla passione che lo animava, ha stimolato, fin da bambino, la mia propensione alla manualità e alla creatività caricandomi di immagini e saperi che oggi metto in atto con il mio lavoro senza trascurare materiali ricorrenti che fanno parte del mondo edile: un modus operandi quasi da contesto cantieristico. Anche se il lavoro finito ed esposto può sembrare pulito e terminato, il processo per realizzarlo è stato svolto in un vero e proprio cantiere in divenire, in cui il processo stesso diventa lavoro e mezzo su cui indagare.
I tuoi lavori conducono verso un’universale regno della spiritualità umana. Cosa ne pensi?
Viviamo in un periodo storico dove il torpore mentale e l’alienazione sono terreno fertile per il sistema in vigore, un sistema meramente capitalistico dove l’individuo si è trasformato in consumatore e vende le proprie ore di vita per un compenso. Sono d’accordo con Lev Tolstòj quando dice che bisogna avere tempo da perdere per essere felici. Non voglio essere pedante e narrare i drammi del contemporaneo. Il mio è più un modo per stimolare riflessioni o, forse, è tutto il contrario: evadere per rappresentare questo mondo in una visione più ironica e allegorica. Forse il mio regno universale di spiritualità è la consapevolezza che trasformo in ironia.
Quanto i tuoi primi esperimenti sulle forme, e la materia, sono stati fondamentali?
Ricordo che all’inizio del mio percorso ero molto frustrato, privilegiavo la pittura che però era un medium con cui mi sembrava di non riuscire a esprimermi, cercavo sempre di uscire dalla tela, mi sentivo stretto e costretto cercando sempre la matericità. È stato grazie all’approccio alla scultura o meglio, alla tridimensionalità, che mi sono sentito sbloccato. Ho iniziato a esprimermi al meglio attraverso l’utilizzo di diversi media e materiali plastici. Le prime forme tridimensionali. o comunque che cercavano di uscire dal concetto della “tela”, sono stati degli agglomerati di tessuto, colle e gesso a cui davo forme diverse, alcune volte compresse e altre tese. Credo che questo sia stato il punto di partenza. A oggi continuo a sperimentare e scoprire materiali e tecniche sempre nuovi attraverso l’installazione.
La cultura dovrebbe essere pensata e gestita come un balsamo rigenerativo per il territorio, e per le città. Potresti parlarci di alcuni esempi virtuosi?
Certamente alla cultura dovrebbe essere riconosciuto un ruolo preminente per lo sviluppo del territorio e delle città. Ciò dovrebbe valere per tutto il mondo, e soprattutto per il nostro paese che possiede una gran parte dei beni culturali esistenti.
Ricordo una mia esperienza di residenza d’artista svoltasi nel territorio calabrese di Marano Principato, nei pressi di Cosenza. Fui selezionato per partecipare a un concorso di utilizzo di spazi pubblici del paese realizzando opere site specific. Rimasi impressionato dallo spirito che animava il gruppo di persone che aveva organizzato l’iniziativa ospitando gli artisti partecipanti nelle proprie abitazioni. Si erano impegnati nella realizzazione della manifestazione portando delle nuove esperienze artistico culturali nel loro piccolo comune, anche a loro spese, affinché tutta la loro comunità potesse arricchirsi attraverso una esperienza artistica.
Ricordo anche un progetto più recente con l’associazione culturale Mixta, fondata a Genova da due ragazze impegnate nell’arte. È interessante evidenziare la forza di queste due ragazze, ancora studentesse di Accademia, che da sole hanno voluto sopperire alla mancanza di attività culturali del loro territorio impegnandosi in prima persona. Per non tacere della mia partecipazione alla manifestazione promossa dal gruppo CAPPA di Pescara, svoltasi nello scorso maggio, finalizzata a far conoscere a un vasto pubblico un piccolo territorio della provincia di Pescara (Nocciano) sede di un museo denominato “delle arti” in cui è possibile trovare una vasta collezione donata da vari artisti. Il gruppo CAPPA ha voluto far conoscere questo piccolo territorio ivi sponsorizzando un evento di divulgazione di performing art a cui ho aderito.
A cura di Camilla Boemio
Instagram: iacopo_pinelli
Caption
Sui corpi galleggianti – Misure variabili, ferro e cemento, 2021 – Courtesy l’artista
Messa in sicurezza – Ferro, legno, tessuto, inchiostro, 200×86,5x15cm, 2022 – Courtesy l’artista
Corpi defunzionali (pallet) – 110x80x40cm, schiuma poliuretanica e mattoni, 2019 – Courtesy l’artista
Peso – Misure variabili, colle, tessuto, gesso, legno, cavi d’acciaio e fogli di carta, 2018 – Courtesy l’artista
Corpi defunzionali (gambe) – 120x60x30cm, schiuma poliuretanica e legno, 2020 – Courtesy l’artista