HYBRID ARCHIPELAGO fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche delle giovani generazioni italiane, alcuni con lunghi periodi di Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Mattia Balsamini (1987, Pordenone). Nel 2008 si è trasferito a Los Angeles. Ha iniziato i suoi studi presso il Brooks Institute of California dove si è laureato con Honorable Mention nel 2011. Nel 2010 ha lavorato presso lo studio di David LaChapelle come assistente e archivista. Balsamini focalizza la sua attenzione sul concetto di lavoro e ricerca scientifica come fattore identitario per l’uomo. Le sue immagini rivelano la funzionalità della tecnologia e gli elementi grafici dell’ordinario. Negli anni, ha realizzato progetti personali ed editoriali in varie istituzioni – Max Planck Institute for Physics, MIT, NASA, Institute of Forensic Medicine University of Zurich, Laboratory of Anthropology and Forensic Odontology of the University of Milan, the Anton Pannekoek Institute for Astronomy ad Amsterdam e Sprind – Bundesagentur für Sprunginnovationen – ed esposto in gallerie all’avanguardia, alla Triennale di Milano, al MAXXI, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e alla Fondazione Bevilacqua la Masa di Venezia.
Nel 2008 ti sei trasferito a Los Angeles, la mia città preferita. Ci racconti di questa fase che ti ha portato a lavorare, anche, come assistente di David LaChapelle?
Ho iniziato con un periodo a Santa Barbara, dove si trovava la sede della scuola di fotografia in cui ero stato accettato, una piccola cittadina di villeggiatura, in cui curiosamente si mischiavano le vite degli studenti dei vari college e quelle degli anziani che andavano a svernare nel clima mite della costa centrale. È lì che ho trascorso il mio primo periodo in California. È stato un periodo di grande e costante apprendimento, sotto tutti i punti di vista, dalla cultura di un altro paese che pensavo di conoscere, alla mia emotività, dalla tecnica fotografica al rapporto con il cibo. Guardo indietro e capisco che ero un ragazzo che fino ad allora aveva vissuto forse troppo poco; a 18 anni era ancora tutto estremamente nuovo. Mi sono trasferito a Los Angeles qualche tempo dopo, continuando gli studi per il mio BA e lavorando per fotografi pubblicitari e di moda, arrivando al mio periodo nello studio di DLC grazie a un amico, che al tempo era il suo studio manager.
C’è una fede appassionata nel lavoro? Reputi che in California ci sia un sistema che sorregga i giovani e i loro sogni?
C’è senz’altro, come dici tu, una fede nel lavoro. È anche innegabile che in molti altri paesi e culture il lavoro rappresenti un tassello cruciale nell’identità dell’uomo. Negli Stati Uniti forse è più evidente sia il valore della specializzazione, sia la verticalità estrema delle nozioni che uno specialista ha, a volte a scapito di altri temi al di fuori dei suoi interessi. Non frequento Los Angeles da un paio d’anni, non conosco le nuove dinamiche professionali, ma nei primi 2000 la “Fabbrica dei Sogni” era già diversa dai ruggenti anni Sessanta, Settanta, Ottanta, e decisamente dai Novanta. Nel nostro settore c’erano senz’altro molti professionisti attivi dai quali un giovane poteva fare esperienza, guadagnando dignitosamente, vivendo in una città difficile ma dal clima mite, e dove lo stato d’animo e la mentalità della maggior parte della popolazione era positivo e rilassato. Di questo ultimo aspetto la California è sempre stata non a caso un simbolo.
Chi sono stati i tuoi maestri?
Devo molto alla prima persona che mi ha permesso di lavorare nel suo studio di fotografia commerciale, Alfredo, un fotografo del mio paese da cui ho fatto l’apprendista durante le scuole medie e non sapevo nemmeno di essere completamente interessato a tutto questo – mi ha insegnato cosa significa lavorare in studio, con lentezza, precisione e ossessività. DLC per la naturalezza con cui ha sempre incluso, in tutto il processo di shooting, giovani inesperti e volenterosi, dando fiducia.
Come sviluppi i tuoi progetti? Quale è l’intento e il metodo?
Ho un’idea di fotografia a cavallo tra il funzionale e il surreale. La pratica fotografica è contemporaneamente un mezzo e un fine, ambisco a creare immagini informative e didattiche rispetto ai temi portanti della mia ricerca sulla tecnologia, cercando di fare in modo che prese singolarmente possano vivere di un qualche impalpabile magia sospesa. È un desiderio che deriva dalla mia visione di tutte le cose, forse dal perverso atteggiamento di voler capire, ma non fino in fondo, altrimenti la magia potrebbe forse scomparire.
La pratica del ritratto è un’esperienza complessa. Il rimando è alla storia dell’arte, alle quadrerie dei castelli dove scorrevano, autoritari e fugaci, i volti delle classi agiate. Oggi i ritratti sono, molto spesso, scatti che diventano copertine delle riviste più patinate. Cosa vuol dire realizzare un ritratto che abbia un’estetica contemporanea? O riutilizzare i rimandi del passato citandoli, creando un linguaggio che sia immagazzinato in un vocabolario contestualizzato e innovativo?
Ritrarre è innanzitutto rappresentare, codificando diversi input, di cui la persona ne rappresenta soltanto uno dei tanti. La fotografia di per sé sono convinto trovi costante linfa in un atteggiamento di valorizzazione del classico, procedendo per piccoli passi, piccoli rischi nella propria trasformazione. Per questo molta della pratica del ritratto, se pensiamo anche solo dal Medioevo in poi, si ritrova perlopiù invariata nel registro stilistico della contemporaneità fotografica. Non credo assolutamente sia un aspetto negativo della fotografia; penso sia interessante giocare con la consapevolezza che il nostro occhio e il nostro cervello sono storicamente attratti da degli appigli visivi ricorrenti, determinate espressioni, punti di vista, prossimità con il soggetto, tipi di luce, colori, eccetera. Lo stimolo è come far progredire questo linguaggio senza fare per forza il passo più lungo della gamba. Ma una parte della risposta sta senz’altro negli altri input, il costante cambiamento dell’aspetto contemporaneo dell’uomo, di quello che gli sta attorno, quello che gli sta addosso.
Potresti parlarci di Rem Koolhaas fotografato, a Milano, per SZ Magazin. Come hai immortalato uno dei maggiori architetti al mondo? Cosa hai voluto evidenziare in questi scatti?
Si trattava di un’intervista sulla costante evoluzione e trasformazione di Fondazione Prada a Milano. È stato un incontro molto pacato e piacevole. Molti dei ritratti sono stati realizzati nella surreale cornice degli studi fotografici di Prada, in cui vengono fotografati i loro capi. Avevo un’idea di Koolhaas preciso e vagamente sinistro. Non volevo assolutamente arrivare a svelare nulla, mi interessava rinforzare questa idea idea che avevo di lui. A fine shooting gli ho chiesto di firmare una copia del suo Junkspace.
Vorrei anche approfondire la tua passione per la fotografia industriale. Mi riferisco alle serie: CaorsoNuclearPlant, MIT realizzata per Wired, e MissionRosetta. Puoi parlarcene?
Ho passato la maggior parte dei pomeriggi della mia infanzia, dopo la scuola, nell’ufficio di mio padre. Ha un’impresa che progetta e installa impianti di riscaldamento. All’epoca non ero appassionato del suo lavoro, non ero nemmeno esattamente sicuro di cosa facesse per vivere. Gli uffici erano situati su una strada cittadina vicino alla stazione ferroviaria di Sacile, e dietro il cancello d’ingresso si vedeva questa casa di tre piani costruita negli anni Settanta. Al piano inferiore c’erano gli uffici, mentre al primo e secondo piano c’era la residenza dei miei nonni. Giocavo e mi spostavo tra questi due mondi quasi senza soluzione di continuità, essendo abituato a pensare che fossero uno. Facevo merenda, parlavo con mia nonna, poi scendevo a giocare con gli attrezzi in officina, tra gente che lavorava indaffarata. Il lavoro per me è un’azione, ma è anche un luogo, uno spazio in cui ci muoviamo ed esistiamo. Proprio come il concetto di casa. Credo di occuparmi di questi temi per riscoprire ciò che ho visto per la prima volta nella mia infanzia.
La fotografia è utile per capire il mondo? trovi sia in grado di dissolvere dubbi e far superare le incertezze?
Non lo so. Però credo sia utile per farsi altre domande e per continuare a cercare qualsiasi cosa si stia cercando.
Quanto il senso del luogo e l’atmosfera sono trainanti nella tua ricerca?
Il senso del luogo è una grande ossessione, è come dicevo uno dei motivi per cui per me tutto è iniziato, mi piace pensare che una briciola di nostalgia, dal sapore di quello che i tedeschi chiamano Fernweh (nostalgia dell’altrove), si trovi in quello che faccio.
A cura di Camilla Boemio
Instagram: mattiabalsamini
Caption
SX: iCub, dalla serie Androids – DX: Castelfranco, dalla serie Available Resources – Courtesy Mattia Balsamini
SX: dalla serie MIT, realizzata per Wired – DX: dalla serie In Search of Appropriate Images – Courtesy Mattia Balsamini
Fervet, dalla serie Available Resources – Courtesy Mattia Balsamini
Dalla serie In Search of Appropriate Images – Courtesy Mattia Balsamini
Rem Koolhaas, realizzata per SZ Magazin – Courtesy Mattia Balsamini