Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Questo mese mi confronto con Lorenzo Vitturi (Venezia, 1980), da anni vive a Londra. La sua attuale mostra El camino y nada màs da NEUTRO, a Reggio Emilia, evidenzia la stratificazione della sua pratica artistica nella quale convivono innesti di elementi, di materiali, fino alla interconnessione tra fotografia e scultura. Le opere esposte sono completate da strati sovrapposti: le fotografie ritraggono elementi del paesaggio andino e della vita quotidiana veneziana e sono arricchite da integrazioni organiche.
Dialogando con lui andremo a ritroso trattando i vari passaggi della sua ricerca e i suoi progetti.
Quando ho strutturato questa rubrica è come se ti avessi pensato; sei campione perfetto dell’artista cosmopolita che indaga le questioni dell’ibridazione culturale, che penso sia uno dei punti più interessanti dell’attuale ricerca in campo artistico.
In Caminantes il viaggio non è solo un mezzo per riscoprire le radici personali, è l’iniziatore di un processo di scambi personali attraverso il quale possono emergere diverse narrazioni. Questo progetto, in corso, combina fotografie e sculture; con un approccio fisico che abbraccia la magia e il rituale. Ce ne puoi parlare?
Caminantes trae ispirazione dalla storia della mia famiglia. Negli anni Sessanta mio padre, originario di Venezia, attraversò l’Atlantico per aprire una fabbrica di vetro di Murano in Perù, dove conobbe mia madre. Questo viaggio ha reso possibile non solo l’incontro tra i miei genitori, ma anche l’avvicinamento di due mondi culturalmente e socialmente molto distanti. Dopo cinquant’anni, ho deciso di ripercorrere lo stesso itinerario che fece mio padre: ho attraversato l’Atlantico portando con me 100 kg di vetro grezzo (Cotisso). Sono andato da Lima all’Amazzonia valicando il deserto costiero peruviano, le Ande e la Selva (Foresta Amazzonica), per tornare infine a Venezia.
Ogni passo di questo viaggio è stato compiuto per riflettere sulle mie origini, attraverso una serie di azioni che, reiterate, hanno assunto un valore ritualistico. La trasformazione della materia e degli elementi raccolti e assemblati lungo il cammino, gli interventi effimeri nell’ambiente e sul mio corpo, l’attivazione di collaborazioni con le realtà artigianali, il gioco di mescolamento continuo dei materiali hanno consentito un processo di “intreccio dell’incompatibile” che mi ha permesso di tracciare una sorta di mappa interiore in cui tempi e luoghi apparentemente inconciliabili collimano.
Nel progetto ho deciso di riflettere su alcune particolarità narrative per indagare come le identità che derivano dalla mescolanza, dagli innesti tra culture, non vivano una condizione di appartenenza ma uno stato di continua sospensione, in bilico sul crinale mutevole di diverse genealogie. Per questo in Caminantes ho creato interventi e forme effimere. La condizione di impermanenza, che contraddistingue sia il lavoro fotografico che quello scultoreo, porta con sé la possibilità di cambiamento. Creare interventi e installazioni fragili e temporanee mi permette di visualizzare e accettare la condizione di perenne mutamento presente negli elementi materici e nelle interazioni sociali.
La fotografia è stata utilizzata per documentare delle azioni precarie che ho allestito durante il viaggio, utilizzando il paesaggio circostante come spazio d’azione. A livello scultoreo ho realizzato una serie di strutture, di corpi transitori, fondendo tra loro i materiali trasformati dal viaggio: Cotisso alterato, ceramiche pigmentate, Cocoon in tessuto misto, lane andine e cerate lagunari, vetro soffiato, resine riciclate. Questi ibridi materici sono uniti per mezzo di saldature, cuciture e legature. La forma finale, soprattutto per quanto riguarda le sculture sospese, è data dalle tensioni create dalle diverse legature attuate nel momento stesso dell’installazione.
Queste soluzioni formali hanno come principale fonte d’ispirazione l’osservazione quotidiana della vita veneziana e andina. Ho adottato un modus operandi che ricalca quello degli ormeggi lagunari: soluzioni spaziali che nella loro apparente casualità seguono una razionalità quasi scultorea.
Le opere sono dunque dei cluster, degli assemblaggi materici in cui confluiscono le diverse osservazioni del mio viaggio geografico e interiore.
Come la scultura si relaziona e dialoga con la fotografia nella tua ricerca estetica?
Nella mia pratica fotografia e scultura sono fortemente legate ed è sempre stato centrale per me indagare le implicazioni e le compenetrazioni concettuali che la relazione tra questi due linguaggi innesca.
Ho sempre inteso la scultura come un processo di trasformazione della materia volto a ottenere corpi effimeri e fin dai miei primi lavori ho utilizzato la fotografia per documentare interventi costruiti di fronte all’obbiettivo, ricercando situazioni ibride in cui il reale si confondesse con la finzione.
Utilizzando soprattutto materiali dalla durevolezza incerta, e avendo lavorato diversi anni nell’ambito della scenografia per il cinema, ciò che mi interessa è indagare la caducità della materia e gli effetti del tempo e delle sue leggi su di essa. La fotografia mi permette di fissare in un’immagine l’intensità data dalle manifestazioni effimere, la loro forza rivelatrice.
Agendo in questo modo i due media si fondono in un processo organico: lo sguardo fotografico bidimensionale plasma la scultura tanto quanto i volumi che ne fanno parte.
In Caminantes, ad esempio, il connubio tra fotografia e installazioni scultoree nello spazio espositivo mi ha permesso di raccontare come le diverse materie grezze si siano trasformate e fuse tra loro lungo la strada e come il viaggio sia divenuto una sorta di laboratorio nomade dove materiali di diversa natura e provenienti da culture distanti tra loro si siano incontrati seguendo traiettorie misteriose, dettate in questo caso dalla mia storia familiare.
L’arte come pratica partecipativa. Reputi sia indicato definire una parte del tuo processo artistico dedicata a questa apertura di intenti?
Il mio processo artistico è volto a una partecipazione concettuale e critica in quanto, trattando di tematiche come l’ibridazione culturale e la commistione di elementi e storie diverse, include necessariamente una vastità di esperienze eterogenee, incluse quelle dell’osservatore. L’organicità della materia e la sua fusione con altri elementi consente allo spettatore di mettere in discussione la propria funzione di marcatore culturale e di esplorare le dinamiche di culture convergenti, dimostrando che nessun elemento può essere visto come puro.
Anche nella fase di produzione, la partecipazione è un aspetto costitutivo della mia pratica. Il mio processo si muove solitamente in due spazi d’azione lo studio e la strada. Lo studio è un ambiente intimo e privato in cui rielaboro le materie e le impressioni e in cui necessito di concentrazione e solitudine.
Nella strada, invece, oltre alla raccolta di materiali e di storie, attivo delle collaborazioni con gli artigiani locali, dando via a una prima fase, partecipativa del lavoro. Si tratta di un momento fondamentale per me perché mi consente di aprire un dialogo di conoscenza con le realtà locali con cui sto realizzando il progetto, sia su un piano lavorativo che umano.
In Dalston Anatomy ho collaborato con un artigiano del ferro che realizzava i banchetti del mercato e ho attivato un processo di scambio e baratto con i commercianti. Questa pratica mi ha permesso di approfondire il rapporto con la comunità, di ottenere la loro fiducia e di far conoscere loro le intenzioni del mio progetto.
In MMBM ho invece attivato una collaborazione con Jaxpo, un calligrafo del mercato che ha realizzato gli interventi grafici sugli stendardi in tessuto e con cui ho instaurato un lungo dialogo sulla natura del mercato, che è divenuto parte integrante del lavoro.
Jugalbandi significa “gemelli intrecciati”. L’uso del tessile è un rimando ad Alighiero Boetti. Le arti tessili hanno maturato nuove forme e definito il proprio linguaggio. La ricerca del tessile e delle fibre, è fortemente concettuale e influenzata da idee postmoderne.
Ci sono varie fasi nel tuo progetto Jugalbandi; hai fotografato gli assemblaggi scultorei naturali, come un telaio coperto da un telo, rendendoli astratti in una serie di frammenti grafici. Queste silhouette monocromatiche vengono successivamente fuse creando una composizione di campi di colore multistrato. Puoi parlarcene?
Jugalbandi nasce da un invito della Jaipur Rugs Foundation a creare una serie di arazzi in Rajasthan. In hindi, Jugalbandi è una parola usata per indicare un’esibizione musicale tra due solisti che suonano simultaneamente ed è qui usata per descrivere il dialogo creativo avvenuto con la fondazione e con le tessitrici locali. La missione della Jaipur Rugs Foundation è sostenere le comunità rurali dell’India attraverso lo sviluppo socio-economico, cercando di aiutare gli artigiani a lavorare e vivere con dignità attraverso l’attività tessile.
La materia esercita un potere trasformativo su chi la trasforma e questo è particolarmente vero per il mio lavoro.
Il progetto è iniziato con un viaggio nel villaggio di Aspura nel Rajasthan, dove ho conosciuto una comunità di tessitrici. Nelle strade e nelle case del paese, il mio sguardo è stato rapito dalle sculture casuali che la vita del villaggio inconsciamente crea. Oggetti e materiali domestici solitamente classificati come normali strumenti funzionali nascondono per me un significato profondo e animista.
Il processo che ha portato alla creazione di Jugalbandi può essere riassunto in tre fasi.
Nella prima fase ho documentato gli oggetti locali e i ready-made trovati nel villaggio, che poi ho ridotto a silhouette grafiche monocromatiche, creando stratificazioni in cui il singolo elemento perde la sua riconoscibilità per dare luce a composizioni organiche.
Nella seconda fase è iniziato il momento del dialogo con le tessitrici. A ogni strato, livello ed elemento della composizione sono state assegnate diverse tecniche di tessitura, cercando di unire in un unico pezzo tutta la saggezza tecnica, le abilità e la creatività delle artigiane. Inoltre, per esplorare la potenzialità scultoree dell’arazzo, ho combinato aree a pelo basso e alto, creando così un’alternanza di lunghezze e una sorta di rilievo. Il risultato è stato un Jugalbandi, un dialogo digitale realizzato durante il periodo di lockdown tra Londra e Rajasthan, in cui le mie impressioni grafiche, ispirate alle forme e alle trame raccolte durante il tempo trascorso nel villaggio, convivono con il mondo abbozzato dalle tessitrici.
La terza fase è stata l’installazione delle opere in Italia ed è avvenuta nella galleria T293 a Roma. Qui gli arazzi sono stati scolpiti tagliando il materiale in eccesso e sono stati completati aggiungendo materiali dal mio studio veneziano: perline veneziane, vetro di Murano, scarti di tessuto peruviano, materiale da imballaggio nigeriano e poster adesivi delle immagini di riferimento iniziali. Esiste dunque un ulteriore dialogo, quello tra materiali diversi: il racconto della vita quotidiana di Aspura incontra quello degli artigiani di Murano e dei tessitori delle Ande.
In questa promiscuità di materiali e narrazioni, le opere prendono la loro forma definitiva.
Sei riuscito ad assorbire molto dalla città di Londra, facendolo in modo analitico, cogliendone le trasformazioni urbane. Ne è un esempio DalstonAnatomy, rappresentazione di una realtà che scompare. Fai emergere l’aspetto multiculturale del quartiere di Dalston, costantemente minacciato da un’intensa e inarrestabile ondata di gentrificazioneche sta costringendo molti a lasciare l’area. Le nature morte sono una parte molto importante della poetica di DalstonAnatomy. Puoi raccontarci i materiali e la narrazione scelta?
La scelta dei materiali è un momento cruciale del mio processo e ha per me una doppia valenza. Può avvenire in maniera fortuita, lungo i miei pellegrinaggi, secondo una scelta estetica oppure per la sua valenza culturale e antropologica, per un particolare significato simbolico o anche come testimone di una storia, come nel caso di Dalston Anatomy.
Sono molto interessato a tutti quegli oggetti che, nella propria storia, portano con loro incontri tra mondi diversi. Prediligo oggetti ordinari utilizzati nel quotidiano, quelli che rifuggono dalla nostra attenzione perché comuni ma che se osservati oltre il loro guscio superficiale nascondono significati inattesi.
In Dalston Anatomy la mia ricerca si è concentrata in una porzione di spazio molto limitata, le strada del mercato che visitavo quotidianamente, e in questo caso la ricerca materiali è stata anche una sorta di attesa, di apparizione, come scoprire un materiale sulla riva dopo una mareggiata.
La narrazione di Dalston Anatomy deriva dallo studio e dal coinvolgimento con la realtà del mercato multietnico di Ridley Road, in cui giorno dopo giorno ho praticato una sorta di anatomia visiva, una dissezione dal micro al macro del luogo che diviene un organismo da svelare e un sistema da scoprire.
Dalle riflessioni sul complesso processo di trasformazione della comunità locale, della sua economia e della stessa natura impermanente del mercato sono nate sculture effimere create con materiali organici di scarto manipolati con pigmenti o decostruiti e riorganizzati. La reintroduzione di queste composizioni nello spazio espositivo come immagini fotografiche, infine, ha consentito riflessioni su cicli costanti di produzione, distruzione e ricreazione.
London Calling ancora?
Londra è stata la mia casa per tredici anni, l’ho amata e mi ha dato molto. La sua energia è sempre stata una spinta propulsiva che ha alimentato le mie idee e il mio agire. Il mio primo libro è nato a Londra ed è stato un momento fondamentale per la mia crescita come autore. Queste ragioni mi portano a essere tuttora molto legato alla città, ma lo stato di innamoramento sta svanendo.
Le trasformazioni sociali causate da una gentrificazione sempre più aggressiva e la situazione politica che ha portato alla Brexit mi stanno allontanando da Londra. L’atmosfera è cambiata, i quartieri più inclusivi e più aperti all’incontro di persone diverse, proveniente da luoghi e mondi diversi, sono stati falciati da un azione di livellamento e appiattimento.
A cura di Camilla Boemio
Instagram: lorenzovitturi
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Honey, Magenta Basket & Red Tarpaulin – Courtesy Lorenzo Vitturi
El camino y nada más 2 , 2021 – Courtesy Lorenzo Vitturi and NEUTRO
Laser Cut-Outs #1, 2017 – Courtesy Lorenzo Vitturi
Red #1, 2013 – Courtesy Lorenzo Vitturi
The Weaver, 2020 – Courtesy Lorenzo Vitturi and T293, Rome