Hybrid Archipelago » Intervista a Dimitri D’Ippolito

Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Questo mese mi confronto con l’artista italo-americano Dimitri D’Ippolito. Nato a Firenze nel 1993, vive e lavora da anni a Londra. Ha studiato fotografia presso lo Studio Art Centres International Florence (SACI) e si è laureato con lode, nel 2016, alla BA Hons -Fine Arts Photography dell’Università di Brighton. Dimitri ha lavorato, per due anni, come assistente di studio per Mark Power e, successivamente, per tre anni per l’artista inglese Edmund Clark. Al momento lavora freelance come creativo e project manager.


Cos’è la fotografia per te?

La fotografia è un meraviglioso strumento che utilizzo per esprimere la mia pratica artistica. È una lingua e così mi piace pensarla. È capace di raccontare, dimostrare, mentire, nascondere, spiegare e farti sognare. Mi piace collocarla fra le lingue che sono in grado di parlare: italiano, inglese, fotografia e un po’ di francese. Usiamo lingue diverse secondo le nostre necessità e secondo il nostro pubblico. Trovo la fotografia essere una delle forme artistiche più controverse e permettenti, la relazione intrinseca che ha con la realtà la rende spinosa ma anche un passe-partout che ti permette di accedere a mondi e realtà altrimenti inaccessibili.

Come sta evolvendo la fotografia?

Mentre tutto il pianeta si è fermato, il mondo delle immagini ha continuato a proliferare e a prendere ancora più spazio nelle nostre vite. Sono molti i ruoli del mezzo fotografico, ed è forse proprio al giorno d’oggi che ci possiamo rendere conto di quanto la fotografia influenzi le nostre scelte e le nostre opinioni. Nell’era digitale, e in un mondo predominato dai social, la fotografia è entrata nella vita di tutti, senza grandi differenze di genere o di classe. La Kodak, nel 1888, lanciò la prima macchina amatoriale con lo slogan: “You Press the Button, We Do the Rest”; oggi si potrebbe usare la frase: “You Put the #, We Judge You”. Se mi fermo un attimo e considero quali sono le tipologie di foto maggiormente create ogni giorno, mi viene da suggerire tre cose: selfie, immagini satellitari e immagini provenienti da sistemi di sorveglianza e sicurezza. Usiamo immagini per insegnare ai sistemi di intelligenza artificiale come riconoscere oggetti, luoghi ed esseri viventi nel mondo non digitale. Compriamo online basandoci su immagini e molto spesso, se le foto non ci aggradano, non acquistiamo un prodotto o non ci iscriviamo a un servizio. Ironicamente, lavorando nel settore commerciale della fotografia so bene che l’intento dell’immagine, in questo caso, è quello di stupire, estasiare e solleticare il pubblico per spingerlo a dare valore a un qualcosa solo e unicamente in relazione all’aspetto accattivante o meno dell’immagine che la rappresenta. In un certo senso succede la stessa cosa con le persone: la maggior parte di noi ha un “portfolio” di immagini che usa per presentarsi al mondo esterno. Come per un prodotto, o per qualsiasi altra cosa io voglia pubblicizzare, dovrò pensare a qual è il mio target in termini di età, sesso e cultura e dovrò anche costruire l’idea che di me voglio dare. Ogni azione, ogni parola ha un significato ben preciso, specialmente quando queste azioni o parole hanno un pubblico. A mio parere, questi sono gli elementi del mondo della fotografia che hanno dato luogo a una vera e proprio evoluzione avvenuta nelle ultime due decadi della nostra esistenza.

Sei interessato alle realtà parallele, a una serie di “misfatti” o “fatti” che attivano cause, azioni o fenomeni complicati. Sveli mondi paralleli. Immergersi nel tuo fare è come rivivere la trama del film Blow-Up di Michelangelo Antonioni. Puoi parlarci della tua pratica?

Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola”

Questa citazione di Voltaire scompone e riassume molto bene quello che, a mio avviso, dovrebbe essere la natura di ognuno di noi. Allo stesso tempo racchiude esattamente tutto quello che la nostra presunzione ci porta a non fare. Misfatti o fatti che attivano cause, azioni o fenomeni; ma anche cause e azioni e fenomeni che attivano misfatti e fatti. Le realtà sono composte da storie, meccanismi scientifici e naturali, processi storici, teorie politiche e credenze religiose. In alcuni casi questi fattori sconosciuti occupano una forza dominante sulle nostre vite, più di quanto possiamo immaginare. Come artista amo perdermi nel trovare il modo di rappresentare queste realtà; nel trovare il giusto “linguaggio” per mostrare da dove, il come e il perché. Perché chiamiamo un oggetto in quel modo? Come mai si da sempre la mano destra e non la sinistra introducendosi a qualcuno? Come e perché siamo arrivati a decidere che con il semaforo rosso ci si ferma e con il verde si può andare? Ponendomi la domanda del perché e del come mi sto dando la possibilità di analizzare e scomporre qualsiasi cosa. Prendo in prestito concetti e quesiti che guidano discipline come la semantica, l’antropologia e la psicologia. Avendo tu menzionato Blow-Up, e l’analogia che il film ha con la mia pratica artistica, mi è venuta in mente una dichiarazione che Antonioni fece poco dopo l’uscita del film. Il regista disse che il film “non riguarda il rapporto dell’uomo con l’uomo, ma il rapporto dell’uomo con la realtà”. Questa semplice frase riassume molto bene la mia pratica e miei interessi nelle dinamiche parallele alla nostra vita. Tutti noi viviamo la vita secondo i nostri ideali e le nostre convinzioni e molto spesso senza davvero voler guardare e capire cosa realmente sta accadendo attorno a noi. Ritornando alla citazione iniziale – “il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola” – mi sento di poter dire che l’intento della mia pratica è quello di “allenare” il pubblico a non accettare passivamente informazioni, fatti riportati e storie come verità indiscusse. Vorrei portare il pubblico a porsi domande, renderlo curioso nei confronti delle realtà parallele che ci circondano continuamente. Credo che gli stereotipi siano uno dei nostri più potenti linguaggi inconsci e non verbali. Li amo, amo usarli, sovvertirli e manipolarli per uno scopo narrativo. La mia pratica artistica si esprime attraverso l’uso di vari elementi visivi e la costruzione di installazioni e pezzi scultorei: il mio lavoro è generalmente caratterizzato dal coinvolgimento fisico dello spettatore con l’opera. Questo è un elemento fondamentale, in molti casi sento la necessità di coinvolgere in prima persona lo spettatore e di portarlo in un stato mentale specifico legato al tema narrato. Se non mi impegnassi per far ciò sarebbe un po’ come chiedere a qualcuno di ballare senza musica, è possibile, ma nella maggior parte dei casi non avrebbe gran senso farlo.

Come è nato il progetto TheyAreNot, Yet?

They Are Not, Yet nasce dalla scoperta che in Italia, e ancora di più all’estero, si ha un’idea molto stereotipata e romanzata di come il crimine organizzato agisca e di quanta influenza economica e politica abbia realmente. Fin da piccolo, mi hanno affascinato queste realtà, soprattutto sentendone parlare da mio padre. È stato poi il mio interesse nelle dinamiche parallele a spingermi a investigare, analizzare e capire come e quanto queste organizzazioni siano potenti e influenti al giorno d’oggi. Prima di iniziare a lavorare su They Are Not, Yet ho sviluppato due lavori inerenti al crimine italiano ed è grazie a questi che mi sono reso conto della necessità di raccontare del presente e di come questi delinquenti hanno cambiato in parte la propria natura e i propri modi per adattarsi all’evoluzione della società, della tecnologia e, di conseguenza, delle forze dell’ordine. Vivendo in Inghilterra ho preso per vari motivi la decisione di trovare il modo di raccontare quale sia il ruolo di queste organizzazioni nel Regno Unito; dopo aver iniziato le ricerche, ho potuto apprendere che Londra e i suoi apparati finanziari sono un paradiso a cielo aperto per il riciclaggio di denaro sporco. Londra è una delle capitali del riciclaggio mondiale, soprattutto per quanto riguarda il riciclaggio dei soldi derivati dalle sostanze stupefacenti e dallo spaccio (non solo gestito dalle mafie italiane). Il ministero del tesoro e degli interni britannici nel 2015 ha rilasciato uno statement che indicava come: “Gli stessi fattori che rendono il Regno Unito un luogo attraente per l’attività finanziaria legittima – la sua stabilità politica, il settore avanzato dei servizi professionali e la lingua e il sistema legale ampiamente compresi – lo rendono anche un posto interessante per riciclare i proventi del crimine”. Sicuramente, dal 2015 a oggi sono cambiate tante cose ma rimane vero il fatto che queste organizzazioni decidono spesso di portare il proprio denaro sporco lontano da dove esso viene prodotto. Il mio lavoro ha molti livelli e varie sfaccettature. È fondamentale ricordare due cose: il riciclaggio è la punta della piramide per queste organizzazioni, il loro intento è quello di passare da un mercato illecito a uno lecito utilizzando i capitali illimitati derivato da attività illegali; tutto ciò continua ad accadere e noi continuiamo a non avere abbastanza prove per poter agire efficacemente: una volta che i soldi escono da un paese, molto spesso se ne perdono le tracce e le forze dell’ordine si ritrovano con le mani legate.
Il mio intento, con questo lavoro, è dare una chiave di lettura leggibile e comprensibile dal più amplio numero di spettatori possibile. Mi piace spingere le persone a non dare sempre le cose per scontato, a non fermarsi all’apparenza.



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In They Are Not, Yet usi elementi come mappe, grafiche e testi accanto alle fotografie. In che modo questi si aggiungono all’intera narrativa del libro?

Il lavoro racchiude vari mondi, già di per se complicati e misteriosi per la maggior parte di noi: l’universo della finanza, il crimine organizzato, le investigazioni, il Regno Unito, etc. I vari elementi che compongono la prima versione del libro hanno il ruolo di contestualizzare e riferirsi ai vari mondi che il progetto racchiude. È importante ricordare che per quanto sia interessato e abbia raggiunto un certo livello di conoscenza su questi temi, io non sono un giornalista, ne un criminologo, ne un membro delle forze dell’ordine o un accademico. Sono un artista che come mezzo principale usa la fotografia; il mio ruolo è quello di creare e trovare gli elementi che al meglio possano rappresentare e raccontare queste dinamiche, sviluppare la lingua adatta all’intento. Per mia natura, e per perseguire l’intento del lavoro, ho ritenuto fondamentale collaborare con vari esperti di settore: giornalisti, accademici, membri delle forze dell’ordine italiane e britanniche. Questo mi ha permesso di capire e raccogliere materiali da tradurre e interpretare al meglio nel lavoro. Il progetto, iniziato nel 2016, è ancora in corso di sviluppo e solo recentemente ho finalmente capito come terminarlo. L’intento dei prossimi mesi sarà quello di tramutare tutta la mia ricerca e le mie immagini in un testo che all’apparenza risulti un libro per bambini. Questo non perché io ho deciso che il lavoro non è destinato a un pubblico adulto. Il mio interesse verso questa tipologia di prodotto editoriale viene dai vari elementi che spesso contraddistinguono i libri per i più piccoli: la semplicità del linguaggio, l’uso d’immagini e disegni per spiegare più chiaramente, l’utilizzo di elementi interattivi e la chiarezza nella struttura.

I tuoi progetti in corso? Augument?

Uno dei miei prossimi lavori riguarderà molto probabilmente la pratica calabrese dell’affàscinu: tradizione unita alla religione, un rituale finalizzato a scacciare il malocchio. Mi ha sempre colpito come questa forma folcloristica si sia legata alla religione e come ancora al giorno d’oggi venga usata, soprattutto dalle persone più anziane. Mio padre è calabrese, molte volte ho sentito amici di famiglia, anche giovani, parlare dell’affàscinu. Devo ammettere che questa cosa mi ha sempre stupito.

Una delle mie prozie, a dicembre, mi ha invitato un messaggio vocale, tramite una delle mie cugine, in cui mi ha fatto un affàscinu. Poi mi dice: “Demè hai capito? Ti sfascia bello a zia” (Dimitri hai capito? Ti ho fatto l’affàscinu bello di zia). La persona che pratica l’affàscinu non spiega mai come avviene il rito. Ognuno ha la propria formula, un metodo che viene tramandato oralmente di generazione in generazione. Ho deciso di intraprendere questo progetto perché sono estremamente affascinato da questo fenomeno: antico, specifico e unico per ogni famiglia. Trovo interessantissima questa unione fra religione cattolica, credenze popolari e magia nera (o forse, più che di magia nera meglio parlare di elementi derivanti da culture pagane). Mio intento sarà trovare un modo per raccontare e mostrare al meglio questo fenomeno e la relazione fra la cultura dell’affàscinu e quella delle nuove generazioni. Recentemente ho iniziato a disegnare, non so bene in che direzione sto andando con questa nuova pratica ma penso che presto vedrete del materiale.

London Calling, ancora?

È una domanda difficile, London mi chiamerà sempre da un certo punto di vista. Mi piace molto la città, la vita che faccio e le persone che incontro. Allo stesso tempo è senza dubbio molto frenetica, stressante e cara, soprattutto in relazione alla qualità della vita. Ho pensato spesso di spostarmi, al momento so di voler rimanere ancora per un altro po’ di tempo, ho degli obiettivi professionali e artistici che vorrei raggiungere prima di andarmene. Questo non toglie che mi sposterei senza grandi problemi se mi capitasse un’opportunità interessante, con possibilità di crescita.

A cura di Camilla Boemio


www.dimitridippolito.com

Instagram: dimitridippolito

Caption

Intro, They Are Not, Yet – Courtesy l’artista

Who?, They Are Not, Yet – Courtesy l’artista

Mutual Exchange, They Are Not, Yet – Courtesy l’artista

Why it matters to us?, They Are Not, Yet – Courtesy l’artista

Installation, They Are Not, Yet – Courtesy l’artista