Hybrid Archipelago è una modalità di dialogo; come un arcipelago ibrido delinea una nuova morfologia che unisce le pratiche estetiche degli artisti emergenti italiani con le loro destinazioni, che da forma al ruolo centrale della cultura visiva. Questa conversazione è dedicata a Raffaella Crispino (Napoli, 1979)
Vivi da qualche anno a Bruxelles. Sei stata scelta per frequentare residenze in diverse città, da Israele al Giappone. Il tuo lavoro si nutre di osservazioni sul campo, alludendo a una matrice documentaria. Il viaggio è infatti la tematica che, come un filo conduttore, accomuna tutte le tue opere. Ce ne puoi parlare?
Fin dai tempi dell’università, il viaggio era uno stimolo per il mio interesse verso altre culture, altre realtà, per sfidarmi e uscire dalla mia zona di conforto. Col tempo il tema del viaggio si è definito in una ricerca che parla del tempo, del paesaggio, della storia, della geografia, della globalizzazione, della colonizzazione. Per esempio, la mia opera in collezione al museo Kanal Pompidou di Bruxelles, Untitled (Time Zones), è una ricerca nata da una domanda: è possibile viaggiare attraverso il tempo utilizzando i fusi orari e i voli internazionali? Mi sono interessata a un volo in specifico, un volo che partiva da Tokyo e che arrivava a San Francisco, che partiva il primo gennaio e arrivava il 31 dicembre dell’anno precedente. La voglia di rispondere a questa domanda mi ha portato a fare una ricerca molto più ampia su diversi livelli geografici e storici come, per esempio, l’incredibile storia del calcolo delle longitudini nel XVIII° sec. e del Longitude Prize. Osservando la carta del mondo vediamo che i fusi orari non seguono la linearità dei meridiani ma sono delle linee completamente astratte e che storicamente sono state costruite su interessi politici, economici e geografici di certi paesi. L’opera si gioca sulla cucitura tra i diversi colori di tessuto di organza che segue esattamente le linee dei fusi orari. Tra queste cuciture emergono delle rimanenze di tessuto che cadono su diversi lati creando nuove sovrapposizioni, nuovi effetti di colore e forme e che suggeriscono nuovi territori e temporalità, dando all’opera un aspetto molto più pittorico.
Cosa offre agli artisti d’arte contemporanea il Belgio? Potresti introdurci il sistema dell’arte a Bruxelles? Quali sono le differenze con l’Italia?
Bruxelles, oltre ad attirare gente da tutto il mondo, è bilingue e fino allo scorso anno la comunità francofona e fiamminga hanno investito molto nel settore culturale, creando una ricchezza culturale davvero ampia e aperta a tanti artisti. Purtroppo, nonostante le nostre numerose manifestazioni, il governo ha fatto un grosso errore quest’anno, un enorme taglio finanziario al settore culturale avviando una crisi non solo nei singoli progetti ma nei programmi di musei e centri d’arte di tutto il paese. Un’onda negativa appena partita e della quale vedremo presto i risultati, accompagnati dalla crisi del covid-19.
In Italia, al momento, l’arte è in maggioranza sostenuta dal privato, solo bilanciando il sostegno culturale con fondi statali sarà possibile creare pari opportunità, dare ampia possibilità alla ricerca che non cerca sempre il suo lato commerciale e, quindi, più svincolata da certi compromessi. Un punto dolente è il poco sostegno agli artisti italiani all’estero. L’Italia è esterofila perché gli artisti stranieri sono finanziati dai loro stati, penalizzando l’artista italiano in Italia e all’estero. Dato che i fondi privati e statali non bastano mai, è l’artista straniero che porta una parte del budget. Noi, italiani all’estero, dobbiamo integrarci in un altro paese per ottenere un qualsiasi sostegno.
L’Italia soffre di una grave fuga di cervelli, in tutti i campi: culturali, medici e scientifici. La natalità è drasticamente in ribasso. Lo so, sembra che sto andando oltre alla tua domanda ma è tutto così legato che non è possibile chiudere il discorso al mondo dell’arte. La cultura è uno dei segnali di salute e di progresso di un Paese come la ricerca e la medicina. Diamo l’Italia in mano a filosofi, scienziati e artisti.
Dove preferisci siano visti i tuoi lavori, idealmente?
Avendo una pratica multidisciplinare e lavorando spesso in site-specific, mi piace poter pensare che le mie opere possano essere mostrate su diversi tipi di piattaforme secondo la loro natura poiché ognuna offre molteplici qualità; un museo, per esempio, ti avvicina al grande pubblico, la galleria può darti occasioni sperimentali, l’arte pubblica permette di sfidarti su grandi dimensioni, la piattaforma on line è uno spazio sperimentale e di collettività in continua evoluzione. Ma mentre rispondo ho anche il sentimento che queste sono anche risposte legate al vecchio mondo: ancora non sappiamo cosa si trascinerà il Covid-19. L’arte si è sempre rinnovata, ha sempre dato l’esempio di come sopravvivere alle crisi. Tutte le pratiche artistiche e le sue dinamiche interne sono già messe in discussione (forse per fortuna) e si dovranno ripensare i modi di creare, mostrare e condividere. È una grande occasione per ricostruire il mondo in cui viviamo e c’è, purtroppo, sempre il pericolo di ritornare alle vecchie, brutte abitudini.
Come si relaziona il piacere dello spettatore con il piacere dell’artista?
Faccio un lavoro molto stratificato, nei contenuti e nella scelta dei materiali, chi guarda le mie opere per la prima volta ha sicuramente una forte esperienza, allo stesso tempo il mio è un lavoro che deve essere spiegato o meglio raccontato, con tutti i sui aneddoti e i legami con la storia. Gli artisti sono dei ricercatori, costruiamo nuovi mondi, nuovi alfabeti che a volte sono un poco più complessi da percepire fino in fondo. Il piacere è condurre lo spettatore nello stesso viaggio che mi ha portato a concepire un’opera. Occasioni per condividere domande, riflessioni ed emozioni.
Ad esempio, in una delle mie opere più recenti, venti paesaggi sono dipinti su una serie di unghie finte. Ognuna rappresenta una località, una città o un villaggio italiano in cui delle donne sono state vittime di femminicidio. Questa cartografia di paesaggi fa eco alla cronaca italiana che registra un femminicidio ogni due giorni. Purtroppo l’invasione di televisione e giornalismo a fatto si che certi villaggi rimangono associati alla memoria solo per gli omicidi avvenuti.
Per me, le unghie hanno un forte legame con l’attacco e la difesa. Se normalmente seguono la forma della mano, qui invece sono messe una affianco l’altra e ricordano i denti. In alcune culture, mostrare i denti è un atto simbolico per mostrare la propria forza.
Sotto le unghie, una selezione di ritagli di immagini di fiori diversi sono appoggiati al muro direttamente dal suolo, uno affianco all’altro. Evocano l’atto di lasciare dei fiori, per terra e sui muri negli spazi pubblici in ricordo di persone morte. Forme, colori e luoghi di appartenenza diversi che rivelano tutta la bellezza nella loro unicità e nella fugacità delle loro brevi esistenze.
L’istallazione dialoga con un’altra opera: Una Mia Folle Idea, un video in cui ho invitato una psicologa napoletana a parlare del femminicidio mentre si fa fare la manicure. Su dei primi piani di mani e unghie limate e smaltate, l’estetista e la psicologa condividono punti di vista, non tanto su casi famosi italiani ma su alcune idee culturali che influenzerebbero questi omicidi, mentre discutono della forma e dei possibili colori per le unghie.
Per lavorare a questo progetto diverse persone si sono messe in gioco e si sono condivise tante idee ed emozioni. Quando ho parlato davanti a un pubblico di queste due opere ho sempre avvertito una tensione attorno a ciò che denuncia, racconta, provoca, informa. C’è chi è disturbato dagli arnesi della manicure, chi da quelle credenze culturali che gli sembrano lontane e inverosimili ma che pertanto esistono ancora, chi è disgustato dalla curiosità morbosa attorno a questi delitti. Al di là dei media televisivi e giornalistici, credo che l’arte, in qualunque sua forma, ci obblighi a fare della conoscenza una esperienza.
Durante la nostra conversazione mi hai segnalato che, spesso, le ristretezze economiche portano a ingeniarsi e divengono fautrici di opere magistrali. Mi riferisco al modus operandi che hai sviluppato alla collettiva al Castello Colonna, a Gennazzano.
Nel 2010 fui invitata a creare una nuova opera per una collettiva al CIAC di Genazzano per una mostra sull’Ente Comunale di Consumo, ente nazionale esistito nel dopoguerra per vendere alimenti di prima necessità alle persone meno abbienti. Gli artisti erano invitati a usare la carta originale che serviva a imballare il burro dell’ECC. Per la mostra avevo usato un programma digitale, che trasforma le immagini in suoni, abbastanza complesso e produssi, da quel logo, nove tracce musicali. Un mese prima dell’apertura della mostra chiesi al curatore un impianto audio per mostrare la mia opera sonora e scoprii che la mostra era a zero budget e che non c’era nessuna possibilità di avere l’apparecchiatura da me richiesta. Così mi sono domandata se fosse possibile costruire delle casse audio con le mie mani e non avendo nessuna conoscenza in elettronica ho cercato su internet. Qui ho travato una piccola comunità di professionisti e dilettanti che su youtube insegnano a costruire delle casse audio con carta, plastica, calamite e filo di rame. Ho prodotto quindici casse audio seguendo questi esempi, sperimentando nuovi materiali e nuove forme. L’opera mostrava dunque un processo non solo materiale e di idee ma costruiva un ponte tra l’obiettivo dell’Ente Comunale di Consumo del dopoguerra e la situazione economica di molti centri d’arte in Italia.
Un tema ricorrente, sviluppato nei tuoi lavori, è l’immigrazione. L ‘installazione Untitled (Jouy) nei materiali stratifica una serie di rimandi, il passato rurale europeo idealizzato si trasforma in una scena di schiavitù dal Nord America. Siamo di fronte a una rappresentazione parziale delle colonie africane? In queste ambiguità, il lavoro si riferisce all’aspetto storico del tessuto legato alla globalizzazione emergente nel XVIII secolo, così come al suo attuale risveglio in un’era di continue migrazioni. Ce ne puoi parlare?
Untitled (Jouy) rappresenta una scena pastorale della collezione dei Toile de Jouy del XVIII secolo in cui si vedono personaggi felici e a loro agio in una campagna generosa. L’intervento che ho fatto è minimale, dipingere la pelle dei personaggi di nero. Il Toile de Jouy, che per secoli ha fatto parte degli arredamenti e nella tappezzeria di una certa borghesia, qui diventa disturbante e apre a delle domande. Siamo di fronte ai sogni dei migranti? L’opera racconta una Storia alternativa? O parla dei nostri braccianti trasformati in schiavi? O fa referenza alla storia degli afro americani?
A cura di Camilla Boemio
Instagram: raffaella_crispino
Caption
Untitled (Time Zones) – Commissionato da Kanal Centre Pompidou – Organza, 500x1000cm, Raffaella Crispino©2018 – Courtesy l’artista, ph Alexandra Colmenares Cossio
Laura, Sarah, Yara, Meredith, Chiara, Melania, Deborah, Veronica, Roberta, Pamela, Marianna, Elisa, Eleonora, Rosaria, Charlotte, Stefania, Donatella – Unghie finte, smalto, pleaxliglass, carta, cartone, dimensioni variabili, Raffaella Crispino©2019 – Courtesy l’artista, ph Alexandra Colmenares Cossio
Untitled (Jouy), dettaglio – Penna grafica su tessuto stampato, 185x185cm, Raffaella Crispino©2015 – Courtesy l’artista, ph Alexandra Bertels
ECC – Casse audio fatte a mano, carta originale Ente Comunale di Consumo, carta, plastica, calamite, filo di rame, dimensioni variabili, 9 tracce audio, 14’28”,Raffaella Crispino©2010 – Courtesy l’artista
Untitled (frutta e verdura) – Dimensioni variabili, Raffaella Crispino©2017 – Courtesy l’artista, ph Alexandra Bertels