Per un iperrealismo francescano. Helene Appel

Di fronte alle più recenti opere della tedesca Helene Appel (1976), attualmente esposte alla Galleria P420 di Bologna, si può facilmente avvertire la necessità di osservarle da diversi punti di vista nel tentativo di coglierne un qualche accenno di volume, qualche escrescenza o aggetto di ciò che sulla tela sembra semplicemente adagiato o incollato. Le enormi dimensioni di molti suoi lavori ci portano a guardarli istintivamente da lontano, ponendoci a debita distanza, per afferrarli nel loro insieme. Ma avvicinandoci sempre di più ci accorgiamo che ogni ricerca di aggetto e di volume si rivela infruttuosa: facendo leva sulla trama di una tela grezza, l’artista sfida il nostro sguardo con raffinati giochi di luce, di una fedeltà lenticolare quasi fiamminga – e il suo cognome, del resto, anche per la facile assimilazione a quello dell’olandese Karel Appel suggerisce una possibile origine comune – che ripropone in chiave “povera” la sofisticatezza di una tecnica così controllata e metodica.

Helene Appel
Seashore – acrilico e acquerello su lino, cm. 280 x 130, 2016, detail – ph. C. Favero

Helene Appel infatti adotta e affina i virtuosismi della pittura iperrealista (che fino a oggi non aveva ancora trovato applicazioni particolarmente innovative) senza tuttavia pretendere di ottenere una quasi-fotografia che riempia ogni singolo poro del supporto suscitando stupore per la fedeltà mimetica. La tela infatti respira, non viene soffocata da imprimiture e pigmenti, ma espone la sua più bruta e porosa materialità, tanto più trattandosi di una tela grezza, di lino, che può ricordare un sacco di juta o il saio di un frate. Su di essa Appel traccia in modi leggeri ma precisi, calibratissimi, esili fili o ghirigori di luce che simulano frammenti di una rete da pesca (Fishing Net, 2016) o la schiuma che resta di una risacca ormai placata (Seashore, 2016). L’occhio iperrealista della Appel, a differenza di quello di Chuck Close o di Ralph Goings, Iperrealisti della prima ora, non cerca il peso e l’opacità dell’oggetto, ma intende cogliere e cristallizzare le rifrazioni della luce su materiali diafani e pressoché inconsistenti, portandole alla nostra attenzione mediante opportuni processi di ingigantimento.

Helene Appel
Fishing Net, acrilico, acquerello e olio su lino, cm. 205 x 420, 2016, detail – ph. C. Favero

Di fronte a un’opera come Bag (2013) è difficile non pensare poi alle frugali ma eleganti Carte (1958-59) di Corrado Cagli, in cui le piegature di rozzi e poveri fogli marroni, come quelli dei sacchetti del pane, vengono sublimate mediante una capillare traduzione pittorica. Una pittura che celebra il “vedere”, si direbbe, data l’alta fedeltà su cui si impernia lo stile di Helene Appel. Ma ponendo maggiore attenzione, si può riscontrare invero nelle sue opere un doppio livello di tattilità, quello direttamente afferrabile della ruvidezza della tela e quello indotto, virtualizzato, di reti e stracci che solleticano indirettamente i nostri polpastrelli, o di fette di carne che, mediante un trattamento a encausto, sembrano trasudare midollo osseo e sangue. Un iperrealismo senza sfondo, quello di Helene Appel, che svela volutamente i trucchi del mestiere, mettendo letteralmente a nudo le logiche della pittura. L’alta fedeltà di soggetti così delicati, semplici e modesti, quasi impallidisce e si dissolve a stagliarsi su quelle superfici ruvide, volutamente grezze, offerte allo spettatore nella loro veridicità fattuale. Una pittura che si muove tra lucidità e opacità, capace di stemperare la densità della materia nella radezza della tela vergine, ragionando ancora, ma in modo affatto scontato, su quel divario tra rappresentazione e realtà che ha segnato l’intera vicenda della pittura contemporanea.

Pasquale Fameli

HELENE APPEL

WASHING UP

25 settembre – 5 novembre 2016

P420 – Via Azzo Gardino, 9 – Bologna

www.p420.it

Immagine di copertina: Washing up –  installation view, P420, Bologna –  courtesy P420, ph. C. Favero