Giulio Bensasson – Losing Control

Losing Control è la prima personale di Giulio Bensasson, esposizione incentrata sul tema della perdita del controllo e dei fenomeni a essa correlati. Il percorso espositivo si articola tra gli spazi del Silos e del sotterraneo dell’antico Pastificio Cerere, a Roma, entrambi valorizzati dall’omonima Fondazione. La mostra, a cura di Francesca Ceccherini e finanziata con il programma regionale Lazio Contemporaneo, sarà visitabile fino al 20 luglio 2021.


Per avvicinarci al progetto Losing Control vorrei approfondire con te il concetto di controllo. Come ti rapporti con l’ossessione legata al tentativo di esercitare un dominio sulla materia, in quanto artista, e sulle situazioni della vita quotidiana, in quanto persona?

Da artista, mi ritrovo spesso a combattere ed esorcizzare una tendenza, presente in me e in altri colleghi, che consiste nel eccessivamente controllare la materia e nel cercare di direzionarla a seconda delle proprie aspettative. Tuttavia, non considero l’errore come qualcosa di negativo e come indice di un lavoro mal riuscito; al contrario, lo associo a un’apertura verso nuove possibilità, e ciò è vero anche da un punto di vista evolutivo.
Trovo ridicola l’ostinazione legata alla volontà di perseguire a tutti i costi un ideale di perfezione, tendenza tipica dei nostri tempi: la considero una pratica dannosa e illusoria.
Un’abitudine che porto avanti con costanza è quella di appuntarmi delle frasi dogmatiche che sento nel quotidiano, modi di dire o veri e propri slogan; le raccolgo per poi scardinare ciò che si vuole comunicare attraverso queste asserzioni, dal tono perentorio e sicuro ma dalla base estremamente fragile. Questo esercizio mi permette di testare la sfaldabilità e arbitrarietà di certe convinzioni umane.

Analizzando i tuoi lavori precedenti si può notare un costante richiamo alla componente temporale: dalla serie Tracce, in cui delle impronte testimoniano l’esistenza di una realtà passata, fino al tentativo di arrestare l’azione dello scorrere tempo in Slow Motion.

Sicuramente i miei lavori richiedono lunghi periodi di attesa e analisi, non sono un artista che produce costantemente e in maniera serrata. Inserire materiali organici nelle mie opere mi permette di perdere in parte il controllo su ciò che faccio per affidarlo al lavorio del tempo, attendendo il conseguente deterioramento della materia.
Questo si ricollega all’idea di considerare l’errore non come qualcosa di sbagliato, da correggere o da eliminare, ma di accoglierlo rispetto agli spunti formali che può suggerire.
In Slow motion ho giocato con la manipolazione estetica del tempo, tentando di conservare della frutta all’interno della resina epossidica, illudendo ironicamente a un rallentamento del processo di decomposizione, che comunque avverrà: nessun polimero, per quanto stabile, può garantire una perfetta conservazione del materiale organico.
In Tracce ho pressato frutta, verdura ed elementi vegetali su carta di cotone trattata, per poter astrarre la sostanza dall’oggetto, rendendola reinterpretabile e ridefinibile, e al tempo stesso lasciando un’impronta che registri il processo di decomposizione dell’organismo vivente.
Il richiamo al memento mori in questa serie di lavori è sempre presente e strettamente legato allo scorrere del tempo che accompagna il deterioramento dell’elemento organico, ma la mia vuole essere una visione che apre a un’accettazione dell’errore e della finitezza dell’uomo. Ed è questa l’idea che anima gli ambienti di Losing Control.



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Il carattere grafico utilizzato per Losing Control ammicca a una tipologia di pubblicità spesso legata ai prodotti di cura della casa, che verte sulla sanificazione e profumazione dell’ambiente domestico. Possiamo dire che l’ambiente domestico, solitamente considerato luogo di protezione, diviene centro delle ossessioni dell’uomo?

Il titolo della mostra, attraverso il font e il colore rosa shock, richiama uno stile catchy in pieno spirito capitalista. Attirati da una scritta allegra ed estremamente invitante, si passa a un ambiente un tempo adibito al lavoro, il Pastificio Cerere, che produceva semola e pasta fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Per inserire i miei interventi all’interno di uno spazio così ben delineato ho voluto accentuarne i contrasti interni: la mostra si articola in due sale, identiche da un punto di vista strutturale e poste una sopra l’altra. Ciò che cambia è lo stato di conservazione: la prima sala che incontriamo, il sotterrano di Spazio Molini, è caratterizzata da un ambiente fatiscente, dove muffe e tubature sporgenti abitano le pareti dello spazio. La Sala del Silos, l’ambiente sovrastante, rappresenta invece il classico white cube. Questa differenza di conservazione è legata al fatto che il sotterraneo è stato recuperato in tempi più recenti da parte della Fondazione: io ho voluto giocare con questa sorta di doppio.
Nella prima sala, Spazio Molini, ho voluto ricreare uno spazio domestico attraverso l’inserimento di tre interventi caratterizzati dalla ripetizione modulare di piastrelle bianche, l’elemento più iconico e controllabile della nostra casa, che si può sanificare con estrema facilità, e che rivela subito il suo stato di pulizia.
L’apparente perfezione delle mattonelle che costituiscono i tre interventi, che formano due pareti e una colonna, è però disattesa. Le piastrelle sono realizzate a mano: partendo da uno stampo come matrice originaria, esso si deteriora gradualmente, producendo mattonelle sempre diverse. L’errore tecnico di tali elementi modulari è stato enfatizzato attraverso una fonte di luce radente, monumentale, che va ad accentuare le imperfezioni presenti sulla superficie, trasmettendo così questa irraggiungibilità della perfezione sin dal suo elemento di base. Ho inoltre accentuato la distanza tra un blocco e l’altro attraversi l’utilizzo del nero assoluto, un trompe l’oeil che suggerisce un vuoto presente oltre le mattonelle, che esse vanno a celare: un richiamo al tema del memento mori, di vuoto assoluto, che tentiamo in ogni modo di nascondere, partendo da un controllo ossessivo sulla nostra vita e su ciò che ci circonda.
All’interno di questo ambiente è evidente come l’intervento dell’uomo si focalizzi su un’area molto piccola e circoscritta, mentre lo spazio circostante è alla mercé delle muffe e dei licheni. Inoltre, il contrasto tra l’ambiente fatiscente e le mattonelle candide e ben illuminate viene accentuato dalla presenza di diffusori che sprigionano nell’ambiente un forte profumo di pulito.
La seconda Sala del Silos si è sviluppata come contraltare dell’area sottostante: in questo ambiente così bianco e regolare ho voluto inserire le diapositive della serie Non so dove e non so quando, che contrastano con la perfezione dello spazio esibendo immagini perturbanti e in chiaro stato di decomposizione.

Nella serie Non so dove non so quando si assiste a una totale perdita di controllo: il deteriorarsi delle fotografie permette una transizione dalla dimensione figurativa a quella astratta. Possiamo parlare di estetizzazione del processo di decomposizione?

Assolutamente. In questo caso il mio ruolo in quanto artista è legato al ri-presentare queste diapositive, che di fatto sono state modificate dalle muffe e dall’umidità dello spazio nel quale erano conservate. La serie consiste in una raccolta di fotografie dimenticate per quarant’anni in un angolo di un vecchio e umido studio, che ho trovato e catalogato tra il 2013 e il 2016, senza modificare e annullare ciò che decenni di riposo e di processi naturali avevano prodotto sulle diapositive. Ho creato così una sorta di contro-archivio. L’attesa è sicuramente un processo che permette di ridimensionare il ruolo che un individuo pretende di avere su oggetti e situazioni. In questo caso chi visiona queste opere diventa un voyeur: come nei film horror-fantascientifici, si pensi alle pellicole di Carpenter, l’osservatore curioso visiona il disgregarsi della pelle, qui il visitatore analizza il deperimento della patina delle diapositive, i volti ritratti perdono così la loro definitezza, si assiste alla loro graduale trasformazione.
Per tornare al paragone con i film horror, lungo il corso della trama si aspetta morbosamente il momento in cui i personaggi presenti nel film verranno uccisi. Il fatto che tutti moriranno viene già dato per certo, il fine risiede nel vedere i corpi che si contorcono e disgregano nelle forme più disparate: l’estetizzazione della morte diventa così lo strumento per riprendere in considerazione ed elaborare in chiave spettacolare e a tratti comica una tematica spesso rigettata, quella della caducità dell’uomo.

Mentre il progetto della mostra Losing Control si è sviluppato nel 2019, dunque prima della pandemia, The future is bright è contestualizzato in questo particolare periodo storico, e anche in questo caso l’intento è quello di scardinare convinzioni che non hanno fondamenta.

È importante sottolineare il fatto che l’idea di Losing Control sia nata e sia stata elaborata in un contesto precedente all’epidemia tutt’ora in corso. Sicuramente essa anticipa temi che poi si sono rivelati purtroppo “profetici”: l’ossessione nel detergere e sanificare le mani e gli ambienti che viviamo, oltre al ruolo primario che l’habitat domestico ha assunto nelle nostre vite.
L’idea di partenza, che ha dato origine alla mostra, è la volontà di indagare e rendere manifesta la correlazione tra comportamenti ossessivi, di eccessivo controllo, e il timore della morte, del vuoto assoluto, che mette in discussione il senso stesso delle nostre vite.
In The future is bright ho voluto alludere a una frase-slogan-hashtag più e più volte letta e sentita durante il lockdown. Ma la vanità di questa frase risiede nello sviluppo stesso dell’opera: ho tracciato la frase, sempre utilizzato un rosa shock molto vivace, su una parete di gerbere; la scritta perde nitidezza via via che i fiori appassiscono. Per tornare ai film horror di fantascienza, e non solo, nel momento in cui il protagonista pronuncia la frase “andrà tutto bene” è lì che si preannuncia la fase più catastrofica.

A cura di Anna Masetti

Giulio Bensasson

Losing Control

a cura di Francesca Ceccherini

Fondazione Pastificio Cerere – Via degli Ausoni, 7 – Roma

www.pastificiocerere.it

Instagram: fondazionepastificiocerere


Caption

Giulio Bensasson, Non so dove, non so quando, diapositiva d’archivio, 2016 – Courtesy dell’artista

Giulio Bensasson, Non so dove, non so quando, diapositiva d’archivio, 2016 – Courtesy dell’artista

Giulio Bensasson, LOSING CONTROL, dettaglio dell’installazione, Spazio Molini, Pastificio Cerere, 2021 – Courtesy dell’artista