Un giorno tutto questo sarà tuo: l’inattuabile promessa di Mattia Pajè

In accordo con la conformazione abitativa della romana Fondazione smART e con l’intenso programma di residenza che ha visto Mattia Pajè vivere e marcare gli spazi, la mostra, curata da Saverio Verini e visitabile fino al 20 marzo, assume le sembianze di una dimensione domestica; un appartamento in cui le opere dialogano come membri di una famiglia che invece di fornire conforto e stabilità trasmette incertezza. Anche la rassicurante promessa nel titolo, Un giorno tutto questo sarà tuo, non verrà mantenuta lungo il percorso espositivo: le aspettative e i desideri che ci si attendono da quest’abituale espressione saranno contraddetti e disillusi.
Opere molto eterogenee a livello formale conducono verso molteplici direzioni creative, innumerevoli possibilità che in una mostra, come nella vita di ognuno, non si riescono ad abbracciare tutte: ogni lavoro esposto riflette sulle probabilità e potenzialità che preludono al raggiungimento di un obiettivo ma che rimangono inevitabilmente inattuate e sospese. Instabilità rimarcata dalla varietà dei media impiegati: scultura, pittura, fotografia, luce a led e animali vivi segnalano una poliedricità che attesta il disinteresse di Pajè per un’identificazione estetica.

Nella prima sala il visitatore viene accolto dai simbolici proprietari di quest’abitazione con un semplice Ciao, termine che da titolo all’opera: due figure antropomorfe in argilla, dai connotati appena abbozzati, differenziabili solo attraverso i caratteri genitali. La pretesa di monumentalità (data dall’altezza naturale) e di autorità (derivata dal loro ruolo in casa) viene negata dal materiale e dalla modalità di lavorazione che rende queste ‘creature’ estremamente fragili. La rischiosa reazione dell’argilla, che già durante la realizzazione sul luogo si secca, accentua ulteriormente la precarietà di questi personaggi, le cui crettature evidenti indicano che saranno inamovibili e non conservabili a fine mostra; destinati, dopo una breve comparsa in questo mondo, a un inevitabile deterioramento e rimozione. L’abbraccio è il solo sostegno stabile a loro disposizione.

L’idea di incompiutezza compare nella stessa sala anche in una delle due opere in dialogo con le sculture, che pur senza occhi la ‘guardano’: è un light box a led con una riproduzione fotografica di un fregio funerario delle catacombe di Priscilla, che riporta al centro un personaggio senza i connotati del volto. Quella che per i marmisti era una bozza preparatoria in attesa di conoscere i tratti del defunto diventa per l’artista un altro elemento con cui lasciare in attesa le nostre aspettative. A illuderci che è possibile portare a termine le nostre finalità e che Si può sempre raggiungere l’obiettivo è una serie di numeri in acciaio che completa la sala. Il riferimento è a Grigori Grabovoi, ciarlatano pseudo-matematico secondo cui alcune sequenze numeriche, come flussi energetici, regolerebbero l’agire dell’uomo nel mondo, lo guiderebbero verso la realizzazione dei suoi scopi. La possibilità di indirizzare i nostri desideri attraverso la visione di opere o numeri viene però negata dal fatto che dietro questo criptico potenziale c’è il nulla, l’inattendibilità di una teoria infondata.



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L’apice di questo stato di sospensione è espresso nella seconda sala dove nove tartarughe, poste in un terrario adeguato ai loro ritmi vitali, portano sul guscio una lettera in plexiglas. Chi va piano va sano e va lontano è l’opera che non si concretizzerà mai, quella che maggiormente esprime possibilità potenziali ma effimere, irraggiungibili, dato che l’unica parola sensata che può venir fuori dall’abbinamento delle lettere (non a caso “Obiettivo”) dipende dal corretto allineamento delle tartarughe. Un processo con bassissime probabilità di successo considerando che gli animali sono ignari di ciò e che il loro perfetto posizionamento può essere raggiunto quando non c’è nessuno a osservarle; nemmeno troppo paradossale considerando l’inafferrabilità della mostra.

Nell’enorme fotografia dell’ultima sala neanche la beatitudine di un bambino che dorme riesce a prevalere: Un giorno tutto questo sarà tuo (stesso titolo della mostra) dichiara un augurio pieno di speranza ma anche di inconsistenza visto che tre grandi cerchi neri dipinti sulla tela inquinano la serenità del neonato e la sicurezza del suo futuro. L’iniziale atmosfera idilliaca diviene inquietante, turbata da questi segni che, schermando l’immagine, riportano come dei buchi neri all’incertezza, a un avvenire indefinito. Sulla parete di fronte una stella marina estratta da un anello forma un’opera minuscola. Vista l’esagerata differenza di scala con la fotografia davanti, il piccolo astro che dovrebbe vegliare sul bimbo diventa anch’esso inadeguato e non funzionale.

La riproduzione del muso di un leopardo sulla pavimentazione dell’intero spazio riunisce concettualmente opere così diverse: oltre a un invito a esser più istintivi, Bewilder è l’attestazione di un senso di disorientamento (“to bewilder”) infuso dalla mostra e da questa superficie fucsia non ricostruibile visivamente nella sua interezza. Il felino con le fauci aperte, già in passato proposto da Pajè, diventa un ‘autoritratto’ che avvisa dell’ingresso in un’area protetta e abitata da singolari creature, una casa in cui immagini futuribili sono interdette da presenze antiche e primordiali; allo stesso modo del futuro di un artista o di un progetto espositivo che per realizzarsi ha tante vie e prospettive, molte delle quali rimarranno inattuate, ferme al passato. Cogliere tutte le possibilità creative disponibili, senza tralasciare nemmeno le più ardue e congiungerle a fine mostra è il grande merito di Mattia Pajè. Del resto, sfruttare ogni potenzialità e intraprendere tutte le ‘strade’ agibili è per ognuno di noi l’unico modo per aumentare la probabilità di raggiungere almeno uno dei tanti obiettivi che ci sfuggono nella nostra instabilità e precarietà generazionale.

Mario Gatti


Mattia Pajè

Un giorno tutto questo sarà tuo

A cura di Saverio Verini

27 novembre – 20 marzo 2020

Fondazione smART, polo per l’arte – Piazza Crati 6/7 – Roma

www.fondazionesmart.org

Instagram: smart_roma


Caption

Mattia Pajè, Ciao, 2019 – Red clay Sansepolcro, iron, 108 x 172 x 50 cm – Courtesy Fondazione smART – polo per l’arte Roma e l’artista, ph. Francesco Basileo

Mattia Pajè, Chi va piano va sano e va lontano, 2019 – Wood, ficus ginseng, stone, nine testudo horsfieldii, plexiglass, basking spot lamps, Ø 150 cm – Courtesy Fondazione smART – polo per l’arte Roma e l’artista, ph. Francesco Basileo

Mattia Pajè, Un giorno tutto questo sarà tuo, 2019 – 180 gr Front Textile print and enamel on linen, 300 x 200 cm – Courtesy Fondazione smART – polo per l’arte Roma e l’artista, ph. Francesco Basileo

Mattia Pajè, Un giorno tutto questo sarà tuo, 2019 – Installation viewat Fondazione smART – Courtesy Fondazione smART – polo per l’arte Roma e l’artista, ph. Francesco Basileo