Quella di Laura Santamaria è un’esplorazione intorno ai concetti di invisibile e incorporeo, a quel loro comporsi nello spazio e attraverso la materia, attivando dialoghi e corrispondenze con mondi interiori e reali. L’energia è liberata dal gesto come atto puro, nella sua dimensione rituale capace di estrarre l’essenza che si manifesta nella definizione di segni/immagini/elementi o nelle sue astrazioni. Cosmologie urbane, paesaggi e costellazioni che diventano il luogo alchemico dell’artista. Italiana di nascita, vive tra Como e Londra. Studia a Brera, alla Fondazione Spinola Banna, alla Fondazione Ratti e alla Loughborough University School of Art and Design in Inghilterra. La sua è una carriera orientata verso le esposizioni museali con collettive alla Whitechapel Gallery di Londra, al Kunstverein Neukölln di Berlino e al Museo de Arte Contemporáneo de la Fundación Gas Natural Fenosa. Realizza mostre personali al MAC Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, nella Sala Dogana a Palazzo Ducale di Genova e da Choisi a Lugano.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti tra i tuoi esordi e oggi?
Da molto tempo, dal termine dell’Accademia nel 2000. La mia preoccupazione è stata dare valore storico alla ricerca culturale, artistica e scientifica. Per questo mi pongo nei confronti di istituzioni e musei in un’ottica di dialogo e confronto. Mi sto avvicinando solo adesso al mercato e alle gallerie, in passato ho avuto delle richieste ma c’erano altre urgenze da affrontare. Ho fatto un percorso trasversale ma questa scelta mi ha ripagata concedendomi delle opportunità importanti. La differenza fra i miei esordi e oggi sta sopratutto nella maturità professionale e personale che mi ha concesso di non perdere di vista il mio lavoro e i miei scopi, seguendone le evoluzioni. In futuro mi piacerebbe pensare a opere inserite in contesti di arte pubblica.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
La materia come elemento primario nella sua temporaneità o permanenza. Agisce nel luogo mediante le installazioni, nel primo caso, stabilendo relazioni tra le apparenze fisiche e mentali, come i pigmenti e i minerali di Cosmic Joy Swept Over (2012) e di Hypnero (2011/15) che si fanno tracce e costellazioni dove tutto è equilibrato e perfetto o in Stella Matutina (2014) attraverso un delicato equilibrio tra le parti assemblate con il vetro.
Rimane stabile sulla tela o sulla carta, nel secondo, in quell’indagine sul colore come testimonianza corporea di quello che sto facendo. Materie pure, minerali e metalli con cui rintraccio la forma occultata per riportarla alla luce e dargli una visibilità. Un riverbero, una vibrazione, l’intensità o la luminosità, ognuna con una personalità, caratteristiche proprie e un peso specifico per cui i segni saranno diversi. Micro-polverizzazione di oro, neri molto densi, azzurri suggeriti dalle visioni e dalle percezioni dell’aria e del mare durante la residenza spagnola. Questi ultimi sono immaginati come pianeti su tavole di legno e sono il risultato di un’elaborazione delle tecniche antiche in modo sperimentale. I colori, di provenienze diverse, sono composizioni che creo cercandone l’origine e la sostanza, non sarei più in grado di riprodurli.
C’è poi il procedere con il fuoco, rivelatore di luce e calore che trova una sua dimensione organica nella fiamma, una libertà espressiva che lascia impressioni e scie in base ai movimenti nell’aria come in Hypenero (erotic dream) (2015) su un muro della Whitechapel Gallery, un progetto site specific presentato in occasione della London Open 2015 curata da Daniel F. Herrmann e Poppy Bowers, o nei lavori su carta. Il processo di combustione vero e proprio è stato utilizzato in un’unica occasione nella mostra curata da Alice Ginaldi da Dimora Artica, ma non è solitamente il mio procedere.
Il disegno, invece, è un luogo più metafisico, terreno astratto di sperimentazione e autenticità. A livello di percezione, raggiunge una visione concettuale essendo un atto incontrovertibile e autentico per conoscere il pensiero. Nel momento in cui agisco con la mano, il cervello mi restituisce una risposta a cui magari non avevo pensato e possiamo considerarla come un secondo cervello. Forse per questo non amo troppo la tecnologia, non ho la televisione e uso il cellulare quanto basta perché la sua gestualità è limitata a processi minimi che riducono le possibilità dell’immaginazione e della creatività. Nei bambini, per esempio, molte difficoltà a livello motorio sono causate dall’incapacità di rappresentare e organizzare lo spazio fisico del foglio con un’attività manuale dandogli armonia e narrazione.
In Drawings From Lightning la funzione è stabilire proprio connessioni e legami tra noi, le nostre potenzialità inespresse e l’energia che scaturisce da un fenomeno naturale, il fulmine, oggetto immateriale della nostra indagine. È concepito, anche negli allestimenti delle mostre, come se si trattasse di un unico atto. La scelta della carta Modigliani del Gruppo Cordenus e della stampa offset sono state fondamentali in una prospettiva di conservazione, storicità e di eternità dell’opera, per via delle peculiarità specifiche di ognuna. Per questo motivo abbiamo deciso di donare trenta copie alla biblioteca del Museo del 900, alla Biblioteca Polletti, e alla Fondazione Sandretto. Un progetto lungo di pubblicazione indipendente a cui siamo arrivati con il crowdfunding di BeArt. Abbiamo ricevuto il sostegno di privati, di Artphilein Foundation, Choisi, Bice Bugatti Club, Spazio Morris, Casa Gialla, la sponsorizzazione di Cordenons, la partecipazione di oltre trenta artisti e ne è nato un blog online che funziona da archivio. A Milano è stato illustrato in anteprima alla Fonderia Battaglia.
Ci sono poi lavori più grafici, geometrici nel tentativo di rappresentare quella che potrebbe essere considerata una quarta dimensione. Produzioni che nascono dai miei studi sui principi matematici che generano orbite caotiche e razionali, superfici planetarie collocate in un percorso che si fa più entropico. Ora con il progetto V-I-R ViaFarini in Residence mi sto dedicando a un’indagine di astrazione sul colore ma anche a un wall drawing che sarà visibile in occasione di un evento previsto per Aprile, in concomitanza con miart.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Viaggio molto, mi sposto, ho fatto esperienze per lo più all’estero che mi hanno dato molte occasioni e opportunità. Al momento sono in Italia per il progetto di residenza e vivo tra Como e Milano. Qui mi sento un po’ un prestigiatore, devo risolvere ancora delle questioni artistiche sul mio territorio di provenienza ma anche lavorare sul mio “chakra della radice”, poi potrò spingermi altrove.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
È un sistema complesso e variegato, bisogna distinguere a livello nazionale e internazionale, tra pubblico e privato. Al ruolo del privato dobbiamo molto, io ho avuto occasioni veramente fortunate, dall’incontro con le fondazioni alle esperienze internazionali di Londra, Berlino o A Coruña, nell’ultimo anno. Sono stata selezionata tra mille candidati e mi è stato affidato un incarico sostenendo ogni spesa. È un investimento su di te e al contempo rappresenta un atto di fiducia, parte di un processo di culturalizzazione.
Una critica che potrei rivolgere, con molta umiltà, al sistema italiano, si indirizzerebbe alla mancanza di quello spirito di coesione che si respira all’estero tra pubblico e privato. Bisognerebbe fornire benzina alle istituzioni e renderle più sensibili nel valorizzare produzione e sperimentazione. Il museo ha una vocazione precisa nel trasmettere cultura alle persone e noi stiamo cercando di dare il nostro contributo, ma talvolta questa relazione diventa difficile o non facilmente praticabile.
Penso a piccole eccellenze, come al MAC di Lissone, con Alberto Zanchetta. Ha applicato un modello di museo laboratorio, una scommessa e una sfida, in un territorio periferico. È riuscito a trasformare un difetto in una virtù puntando sulla pittura anni Sessanta e Settanta e su quella più contemporanea. Ha costruito una nuova sezione della collezione, incrementando il valore dell’archivio e offrendo un’opportunità agli artisti emergenti che si trovano a confrontarsi in una dimensione museale. Ho avuto piacere di essere ospitata con una mostra personale che lui ha curato con capacità tecnica e intellettuale incredibile, andando spesso anche al di là del suo ruolo e contribuendo manualmente e con un’attenzione sempre puntuale su ogni cosa.
È importante misurare le nostre forze e le nostre capacità in questo modo. Per questo sento stringente l’urgenza di un museo come luogo della condivisione superando le convenzioni del tempo. Ragiono in termini di storicizzazione del presente nel momento del suo generarsi. Per la mia generazione e quelle future vedo il “contenitore” ancora come un utile “certificatore” di valore, un intermediario tra l’idea di opere chiuse nel loro cerchio e un’attività più sperimentale come avviene all’Hangar Bicocca.
Che domanda vorresti che ti facessi?
“It’s really Me
Really You
And really Me
It’s so hard for us to really be
Really You
And really Me
Will you lose me though I’m always really free?”
www.laura-santamaria-blog.tumblr.com
Immagine di copertina: Laura Santamaria – Courtesy l’artista e VIR – Via Farini in Residence, ph credit Giulia Savino
Intervista a cura di Elena Solito