Valeria Mauro, classe 1992, si è laureata in design della moda all’Università IUAV di Venezia. I suoi profondi interessi per l’arte e la fotografia l’hanno condotta a iscriversi al biennio di Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. È attualmente contributor della rivista online Polpettamag. La sua ricerca, principalmente fotografica, si orienta versa il dettaglio del quotidiano, la sua epifania, il suo manifestarsi nella totale bellezza e incoscienza. Una ricerca originaria, pura, ribelle e contemporanea che ricorda per certi versi il modus operandi di una grande artista come Nan Goldin.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Dall’inizio della mia formazione a oggi credo di aver preparato la terra da coltivare. Ho paura ad autodefinirmi un’artista, sento di avere ancora parecchio da imparare e molte esperienze da fare. Rispetto al passato ho a disposizione più risorse a cui appellarmi, un’idea di percorso nitido e delle ricerche personali già avviate.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
L’oggetto principale della mia ricerca è l’intimità. Cerco sempre di trasmetterla nei miei progetti, che siano scatti fotografici o installazioni, giocando sui confini tra dimensione pubblica e privata. La traccia è un altro topos ,inteso come il “ciò che rimane” di una narrazione del quotidiano, che si carica di valore proprio perché manifesto di qualcosa che non è più.
Fino a ora mi sono concentrata molto su me stessa, utilizzando l’arte come terapia e rappresentazione di ciò che, più o meno inconsciamente, cerco di esorcizzare. Finire un lavoro per me ha sempre avuto la funzione di pacificazione di questioni personali, come un diario visivo. Riguardando oggi i miei progetti, li considero tutti come pezzi di un unico autoritratto psicologico.
Ora vorrei prendere le distanze da me stessa e sperimentare con la fotografia, concentrandomi di più sul vissuto delle altre persone e su ciò che ancora non conosco.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Cerco sempre di perdermici dentro, un po’ alla Debord. Mi riesce piuttosto bene perché ho un senso dell’orientamento ridicolo. Bologna l’ho conosciuta così, all’epoca avevo iniziato uno stage in viale Aldini e trovato casa in una traversa di via Irnerio. Mezz’oretta di cammino a passo svelto. Al mattino prendevo l’autobus per evitare ritardi, ma il tragitto di ritorno, la sera, si trasformava in un percorso ingarbugliato di vicoli e stradine che percorrevo in totale libertà, lasciandomi attrarre da qualsiasi cosa mi capitasse sotto gli occhi: un palazzo, un’osteria, una piazza. Mi perdevo e mi ritrovavo continuamente, fino a quando non sbattevo letteralmente contro la porta di casa.
Lacittà in cui vivo è parte integrante del mio stato d’animo e del mio lavoro, o comunque ne influenza l’esito. Penso che per un artista (e per chiunque) lo spazio urbano debba rappresentare una fonte inesauribile di ispirazione, stimoli e bellezza.
Vivo a Bologna da più di quattro anni. L’ho amata moltissimo, e continuerò a farlo anche quando non vivrò più qui. È una città invadente, che ti assorbe e che crea dipendenza. Come succede per i grandi amori, non si è trattato di un colpo di fulmine ma di un sentimento che è cresciuto col tempo, tra stupore, gioia, litigi e notti insonni.
Nonostante sia una città universitaria, di passaggio per molti, conserva un passato e una personalità talmente forti da aver creato un immaginario e uno stile di vita di riferimento. Viene istintivo difenderla o proteggerla da ciò che non le appartiene o dai numerosi tentativi di cambiarla, gentrificarla e omologarla.
Preferisco di gran lunga un tempo che logora piuttosto che sostituisca. Le rughe di una città sono un valore da apprezzare, non un difetto da coprire.
La città in quanto tale non è soltanto un fondale da attraversare ma un contenitore in cui immergersi. La si può addobbare, riqualificare nel peggiore dei modi o renderla un inquietante museo a cielo aperto, ma sotto sotto conserverà sempre la sua anima originaria, la propria verità, ecco. E credo sia sempre importante scoprirla, e frequentarla.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Lo percepisco come un fitto intreccio di relazioni dagli equilibri precari, costituito di fili sottili da tendere e da lasciare al momento opportuno.
Oggi l’operato di un artista può essere conosciuto attraverso molteplici canali di comunicazione totalmente autonomi da quelli ufficiali e fruito all’interno degli spazi più disparati, creando un caleidoscopio di possibilità in più. Penso che il passo successivo sia quello di far interessare e appassionare più persone all’arte contemporanea; a mio parere trascurata dai programmi di educazione scolastica.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
Vorrei parlare del significato di abitare.
Mi è capitato di leggere un saggio meraviglioso di Marc Augé chiamato Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, del 1992. Nonostante non sia un libro recentissimo, affronta brillantemente delle problematiche attuali. I concetti di casa, appartenenza, mobilità, globalizzazione, confini e identità, così come li conosciamo, sono in tempo di crisi. Credo sia importante favorirne una rilettura e una nuova visione, ridefinendoli in virtù dei cambiamenti di natura politico-sociale che stiamo affrontando.
a cura di Federica Fiumelli
www.valeriamauro.cargocollective.com
Instagram: valeria_mauro
Caption
Autoritratto (2018), fotografia di Valeria Mauro
Monica (2017), fotografia di Valeria Mauro
Via della Libera 61 (2018), fotografia di Valeria Mauro