Sophie Ko Chkheidze è nata il 2 settembre 1981 a Tbilisi, in Georgia, e oggi vive e lavora a Milano. Dopo aver concluso il suo percorso di formazione artistica presso l’Accademia di Brera è vincitrice dello storico e prestigioso “Gran Premio della Pittura” di Lissone nel 2016. In bilico fra due mondi, le opere di Sophie materializzano l’eleganza della sua cultura, la bellezza di un fare dove una soffice e raffinata materia trova il suo ordine dentro strutture rigide, all’interno di confini tecnologici che dividono per preservare dalla caducità e dalla folle illogicità del mondo e dello scorrere del tempo. Opere che dietro a una profonda esigenza culturale nascondono il mistero di una bellezza delicata e sconvolgente.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
A differenza dei mestieri di prestazione strettamente fisica, come possono essere lo sport e la danza, l’arte, la poesia e la filosofia presuppongono il tempo lungo del raccoglimento e hanno il privilegio di prender forma nel tempo. Quindi gli esordi per me si legano a questa presa di consapevolezza: concederci il tempo lungo in cui far crescere e portare alla luce la nostra opera. L’esordio spesso coincide con la giovinezza, ma non necessariamente si lega alle esperienze di “solo show“. Forse, l’esordio è quest’alba delle immagini, quando l’immagine si illumina. Una volta accaduto poi si cresce nel tempo.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Noi passiamo. Il centro del mio pensiero è l’uomo, il suo inizio, il suo sguardo, il suo passare, il suo addio.
Oggi la morte stessa rappresenta uno scandalo o un limite; viviamo in un sistema che tende a convincerci che sia possibile superare anche la morte. Così, la morte e il lutto vengono quasi censurati e rifiutati esattamente come si fa con la vecchiaia e con qualsiasi segno del tempo. Anche solo parlare della morte di una persona cara è diventato imbarazzante; mostrare segni di dolore o tristezza è divenuto scandaloso.
Con la sparizione della morte passano anche le immagini. La morte sparisce per permettere alle immagini di passare. Le immagini hanno avuto un legame strettissimo con la commemorazione.
Non è possibile commemorare senza ricordare. Per questo, la memoria è la facoltà epica per i greci e Mnemosyne – colei che ricorda – era per i greci la musa dell’epica. Credo che sia ancora possibile pensare e immaginare dove l’immagine inizia; per secoli l’inizio delle nostre immagini è stata la Terra. Così le Geografie temporali nascono da una domanda in immagine sul tempo. Con il mio lavoro ho cercato di inserire il tempo nelle immagini e non le immagini nel tempo. La mia idea è che queste opere siano un invito all’attesa, le Geografie temporali chiedono tempo per essere viste, vivono il tempo lento delle metamorfosi. Sotto questo aspetto, credo che la centralità dello sguardo umano sia ancora possibile e soprattuto insostituibile.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Vivo in Italia, né ci sono nata e né ci sono capitata per caso, è stata la mia scelta. Ho scelto l’Italia per il suo magnifico Rinascimento, per il suo umanesimo, per le sue chiese e gli affreschi. Le città vengono dopo, comunque per ora vivo a Milano.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Non credo di intendermi di sistemi. Quindi potremmo declinare la risposta sulla seconda parte della domanda. Penso spesso a che cosa possa significare oggi arte e che cosa intendiamo con la parola «contemporaneo». Pensiamo a come oggi sia diffusa la preoccupazione di essere «frizzanti» e «contemporanei» nell’arte; è come se la preoccupazione della società di sembrare sempre giovanile si riflettesse anche nell’arte. Ma mi sembra molto più sensato quanto scriveva dal carcere Egon Schiele: «L’arte non può essere moderna, l’arte appartiene all’eternità». Sono molto attratta dall’istante in cui l’opera d’arte perde la temporalità a favore dell’eternità. E proprio in quanto un’opera è capace di essere figlia del proprio tempo e in grado di radicarsi nel proprio presente che eccede rispetto alla propria collocazione cronologica. Un grande capolavoro dell’arte lo è proprio nella misura in cui è espressione del proprio tempo, travalica i limiti della propria epoca e aspira all’eternità. In questo si distingue dalle opere minori che rimangono legate in modo didascalico al proprio tempo, in qualche modo lo subiscono, ne sono vittime.
L’arte dovrebbe essere la testimonianza di una non sottomissione, di una resistenza al proprio tempo. E così, forse, in maniera un po’ indiretta, ho risposto anche alla prima parte della tua domanda.
Che domanda vorresti ti facessi?
Da dove veniamo e dove andiamo?
Secondo me l’arte e il pensiero consistono in una domanda che affiora, ma alla quale non necessariamente va trovata una risposta. Sono quelle domande eterne, come «perchè tutto finisce», «perchè viviamo», che l’uomo si è sempre posto; io credo che gli artisti, i poeti in fondo agiscano a partire da questa domanda, da questa dolorosa separazione dalle cose. È un «perchè» che uno si chiede senza trovare mai la risposta ed è lì che risiede tutta l’umanità: nel continuare a domandarsi. Ed è un’interrogazione non soltanto contro una sofferenza, un’ingiustizia o il nostro passare irreversibile, ma anche davanti a uno stupore, che nel mondo c’è ed esiste. Con Heidegger, direi che «la domanda è la pietà del pensiero».
Intervista a Sophie Ko a cura di Alberto Pala per FormeUniche