Paolo Maggis nasce a Milano il 29 dicembre 1978. Tra il 1996 e il 2000 frequenta il corso di pittura presieduto da Beppe De Valle all’Accademia di Belle Arti di Brera e oggi vive a lavora fra Barcellona e il capoluogo lombardo. Paolo Maggis è un uomo libero che nella sua ricerca estetica va al di là dei soggetti e del soggettivismo attraverso opere in cui arte e vita si fondono e confondono, verso l’espressione di una volontà dinamica che non dona risposte ma coinvolge nella ricerca di profonde domande.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Ho iniziato a lavorare diciassette anni fa, nell’anno duemila. Avevo solo ventidue anni, da allora è cambiato tutto.
Avevo l’entusiasmo strafottente di un poco più che ragazzino e la certezza che il mondo fosse mio. Il lavoro aveva la schiettezza e la semplicità di questo desiderio e piaceva, piaceva molto per le stesse caratteristiche di cui ora noto la fragilità.
Era solo una parte di me, rifletteva l’idea che io mi ero fatto di me e di chi volevo essere, un’idea annebbiata dall’incoscienza giovanile, trasportata e condizionata dal mondo che mi girava attorno e del quale volevo far parte.
Ora son più schivo e ho la certezza che il mondo non è mio ma, bensì, che io sono nel mondo.
Son solo un puntino tra milioni di puntini e l’unica cosa che desidero imparare è la libertà. Il lavoro è la cosa migliore che ho da dare e l’unico strumento di riscatto da quell’essere solo e meravigliosamente un puntino: semplice, al punto da sembrare complesso, è il continuo tentativo di esistere ed essere strumento per qualcosa che dia senso al tutto.
Ora, quando lo guardo, non mi chiedo più cosa voglio io, ma mi chiedo di cosa il lavoro stesso ha bisogno per esistere. Non accomoda ma, spesso, incomoda perché non ha più la necessità di far parte di nessun mondo: vuole essere solo se stesso.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Ora come ora, non trattano di nulla in particolare. Ho spinto le tematiche fuori dal mio lavoro perché lo costringevano in strutture narrative che non gli appartenevano e che al contempo mi infastidivano.
Utilizzo immagini mentali provenienti dalla rielaborazione della realtà come pretesto.
Durante il processo creativo tutto cambia modificandosi, il quadro spesso gira, l’immagine scompare lasciando emergere un’altra forma che decido di seguire. È l’opera che detta le sue regole, non io che impongo le mie.
Il vero soggetto è la pittura stessa, l’atto pittorico che genera. A un certo punto, ho capito che non avevo più la necessità del testo e che volevo solo suonare delle note.
Attualmente sto lavorando alla mostra 15 milioni di K che inaugurerà il prossimo anno presso il Serrone della Villa Reale di Monza. È la mostra con la quale torno per la prima voltain Italia dal 2005, la prima dopo un lungo periodo di crisi che mi ha fatto riflettere profondamente aprendo nuove ferite e ricucendone delle altre; per trovare il sentiero da percorrere. O aprirne uno nuovo e ritrovare me stesso.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Vivo a Barcellona dal 2008 dopo aver vissuto a Berlino e Milano.
Barcellona è una città bellissima dal clima stupendo. È la città dove ho conosciuto mia moglie ed e nato nostro figlio. È la città che mi ha dato l’amicizia di Bigas Luna, mi ha dato i miei cani.
Al contempo è una città che ha deciso di prostituirsi al turismo di massa e alla siccità culturale. Chiusa alla diversità tanto da essere impenetrabile, o almeno questa è stata la mia esperienza.
Quest’anno, a seguito di questo malessere, ho deciso di tornare in Italia, a Milano. Ogni mercoledì prendo l’aereo delle 6.15 in partenza da Barcellona per arrivare in studio verso le 9.30 per poi ripartire il giovedì sera o venerdì primo pomeriggio.
É una follia eppure mi sono sentito rinascere.
A Milano mi sorprendo di nuovo a respirare, a cercare, a guardare. C’é tutto un mondo che si muove, cose che accadono, stimoli e persone con cui poter parlare e imparare.
Uno dei miei grandi desideri è tornare stabilmente a Milano.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Penso non esista un “sistema” idoneo alla cultura, quello dell’arte ne è l’evidenza.
Non è una questione di giusto o sbagliato, di bello o brutto, bensì di funzionalità. Il mercato speculativo non è funzionale alla creatività. Sono fermamente convinto che la produzione di libertà (per me l’arte é questo, qualcosa che libera e cambia chi la incontra grazie a una sua intrinseca forza metafisica) sia il nutrimento della mente, come il cibo per il corpo. Non è possibile regolare la libertà, qualsiasi contenitore è sempre e troppo stretto.
L’arte ha bisogno di essere guardata con la brama di chi desidera, di chi guarda oltre, di chi vuol essere migliore e crescere. Affinchè possa cambiare il mondo e il mondo cambiare.
L’economia che gli gira attorno dovrebbe garantire che questo miracolo possa avvenire e continuare ad accadere, rispondendo a un’esigenza filantropica nell’esaltazione delle differenze.
La speculazione spesso strumentalizza omologando i gusti e le menti; annichila la capacità di scelta e di costruzione di un pensiero altro, differente, e, troppo spesso, non si cura (e non cura) l’oggetto che sta trattando.
Che domanda vorresti ti facessi?
Non so formulare la domanda con precisione ma so fornirne la risposta.
C’è un momento in cui l’arte non ha più bisogno di parole. O meglio, un punto in cui le parole, anche le migliori, non sono più sufficienti. È quello in cui il cervello ragiona o pensa indipendentemente dalla coscienza e fuori da schemi logici.
Quando il cervello sfugge al nostro controllo e utilizza tutti gli strumenti che ha e che gli abbiamo dato per farci essere umani e per poi riportarci alla vita migliori.
Esattamente come accade durante l’ascolto della musica, o parte di essa. A me succede con Preghiera di Rachmaninov (c’è una versione stupenda di Kremer, Dirvanauskaite, Trifonov) o con il Requiem di Mozart o con la struggente My Funny Valantine dell’ultimo Chet Baker. O davanti alla Pietà Rondanini di Michelangelo, alle opere del Picasso espressionista o a quelle degli anni sessanta di Willem De Kooning (potrei guardare Rosy-Fingered down at Louise Point tutto il giorno, per tutta la vita).
Per me l’arte è quella, quella che non ha bisogno di essere capita ma semplicemente vissuta, ed è il viverla che ti avvicina alla sua “comprensione”. Comprensione come coscienza di non poterla contenere perché l’arte, in quanto tale, supera i limiti della ragione.
Arte che anela, che desidera e che esalta ciò che sei; che ha bisogno di vita per riconsegnarcela immensa.
Immagine di copertina: Paolo Maggis, ph Pietro Formis
Intervista a cura di Alberto Pala per FormeUniche