Non so più da quanto tempo conosco Paolo De Biasi, diciamo dal 2009 quando insieme ci imbarcammo nell’avventura di Italian Newbrow, tutto iniziò dalla Biennale di Praga, sezione italiana. Classe 1966, architetto di formazione, ama il concetto “pittura” maneggiato dai tedeschi e oggi l’ha fatto suo, ritradotto, ripensato, digerito.
Come me adora la musica di un certo target, il suo gruppo preferito sono i The Smiths, e come tutti gli ossessivi (io ho questa ossessione con Sonic Youth, Melvins e Nirvana, ma per i Sonic Youth, tantissimo) compra tutto, ha tutti i dischi, i vinili, i libri, Morrisey di qui, How soon is now di qua.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Mi sembra di esserlo da sempre, se proprio vuoi una data, potrei segnare il mio inizio “ufficiale” con la partecipazione alla selezione finale dei premi Artelaguna e Celeste nel 2007; lì ho deciso di non lavorare più solo per me stesso, ma di mettermi in gioco e confrontarmi col mondo dell’arte che fino ad allora avevo seguito con attenzione dall’esterno. Ci sono molte differenze: sono cambiato io, è cambiato il mondo, cambia il tuo rapporto con il lavoro e le persone, cambia la percezione del tuo lavoro, cambia anche il gusto. Però potrei dirti che non sono più un “giovane artista”. Non lo sono mai stato.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Non vorrei potesse sembrare una semplificazione, ma ritengo che il lavoro artistico sia in estrema sintesi una ricerca di senso, un tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo come tutte le attività umane non legate ai bisogni primari. Con questa premessa le tematiche vanno e vengono, non posseggono un valore intrinseco, non sono che meri strumenti che sottostanno a quella motivazione originale. Ultimamente ho abbandonato la componente narrativa, seppure surreale, che caratterizzava la mia prima produzione. Ritengo che la pittura, mio medium privilegiato, sia di per se stessa una forma di scrittura e insistere con la narrazione mi sembrava potesse precludermi degli spazi espressivi. Il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile; ecco preferisco indagare questa dimensione, tornare indietro per me vorrebbe dire fare un torto alla pittura e a me stesso. Lo dico con pudore ma c’è della magia nel “fare pittorico”, restituire quella dimensione è il mio obbiettivo, è quello che ho sempre cercato nelle opere degli altri: quando, cioè, anche il quadro più astratto non richiede spiegazioni perché si spiega da sé e in qualche modo spiega il mondo.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Vivo a Treviso che non possiamo considerare una capitale dell’arte contemporanea, ma qualcosa si muove, ci sono segnali interessanti come l’attività dell’associazione TRA Treviso Ricerca Arte o la riapertura del Museo Bailo, mostre di livello internazionale come le recenti su Escher o El Greco; in città o nelle immediate vicinanze ci sono curatori attenti e propositivi e artisti di ottimo livello; certo tutti, quando riescono, sono proiettati verso Milano o comunque verso contesti più ricettivi ma intanto si semina; ci vuole tempo ma qualcosa succederà, purché anche la politica si orienti a creare o facilitare effetti di sistema invece che limitarsi al conteggio dei biglietti staccati per la mostra di turno.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Parlerei di due “sistemi dell’arte” come li chiami tu: uno è quello ufficiale, generale, che leggo anch’io dall’esterno e che essendo globale ha regole e rituali comuni ovunque, e poi c’è quello più piccolo ma non meno eccitante al quale ho la fortuna di partecipare. Qui per me ci sono persone, facce, relazioni, rapporti di stima e amicizia, ambizioni, progetti. Ogni tanto questi due sistemi si intersecano, c’è da divertirsi.
Che domanda vorresti ti facessi?
Una cosa che ti piacerebbe ma sai che non si realizzerà mai?
Rifare il giro per Manchester in bicicletta con Morrissey come nel video “ I Started Something I Couldn’t Finish”.
Se succede vieni anche tu!
Pagina facebook di Paolo De Biasi
Intervista a cura di Michael Rotondi