Luca Coser nasce a Trento nel 1965. Studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove frequenta il corso tenuto da Emilio Vedova, e termina il suo percorso di formazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Tiene la sua prima esposizione collettiva significativa nel 1985, a cura di Danilo Eccher, e la sua prima esposizione personale nel 1989 negli spazi della galleria Ponte Pietra di Verona, a cura di Luigi Meneghelli. Da allora ha esposto in numerose gallerie pubbliche e private in Italia e all’estero, presentato da autorevoli curatori e direttori museali. Attualmente vive a Trento e Milano dove insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Non so esattamente quando ho iniziato a sentirmi artista. A scuola andavo male, le solite cose, ma disegnavo bene. I miei agirono di conseguenza: scuola media annessa all’Istituto d’Arte, poi Istituto d’Arte. Infine ci misi del mio, banalmente: Accademia di Belle Arti. La mia prima mostra “seria” è del 1984, spazio pubblico, curatore e tutto quanto. La mia prima personale in una galleria privata è del 1989, con il primo lavoro venduto, tra l’altro a un artista, Luciano Bartolini. Rispetto ai miei esordi è cambiato il mondo dell’arte, le sue dinamiche, e sono cambiato io. Sarà che sto invecchiando ma oggi artisti e curatori giovani mi sembrano più raffinati e spietati di sempre.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Più il lavoro artistico si fa ricerca antropologica del contemporaneo, con tutte le sue mode e i suoi rituali, più mi faccio da parte e più mi faccio pittore, e più mi innamoro del quadro in se stesso, alla sua capacità di astrazione. Da un po’ recupero immagini e umori che sono stati miei e al tempo stesso collettivi, e ci ricamo. Come afferma un amico colto, miro a una tensione verso quella che si potrebbe definire come una dimensione di lateralità, a una poetica che si concentra ai bordi dell’immagine, alla ricerca di uno spazio incerto, “vicino ma non qui” come il titolo di una mia mostra. Dipingo quadri che sono il risultato di una stratificazione di immagini e pensieri mai del tutto chiari, sfocati, in movimento. Mi muovo su un piano più psicologico e lirico che descrittivo, un piano che vorrei inafferrabile, misterioso e carico di senso, ma è difficile. Progetti? Da qualche anno sempre lo stesso: smettere, ma è difficile. Quindi, in questo periodo chiudo una partecipazione alla Biennale del Disegno di Rimini e una in buona collettiva, a quattro, in Austria. Ho davanti un paio di Fiere d’Arte all’estero in collaborazione con Kips Gallery, la galleria newyorkese con cui collaboro dal 2010. La stagione prossima sarò di nuovo a New York e, sempre con Kips, in Corea, poi lavoro a un altro paio di mostre ancora incerte che quindi non cito. Sto valutando due residenze che mi sono state proposte, ma gli impegni e il tempo sono tiranni.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
In modo discontinuo, spesso antipatico. Vivo a Trento, dove sono nato, ma la metà del tempo sono via. Nel bene e nel male è una città che sento “casa”, un bel posto dove tornare e dove, negli anni, sono stati fatti molti investimenti sull’arte e sulla cultura in generale. Dallo scorso anno vivo parte della mia vita a Milano, insegno a Brera. Prima ho insegnato a Roma, Palermo, Foggia, Venezia. E poi il lavoro artistico mi porta spesso in viaggio.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Da un lato mi affascina la molteplicità degli elementi e delle contraddizioni che lo compongono, dall’altra mi deprime il senso di consuetudine che avvolge un mondo ormai diventato un parco a tema per cosiddetti creativi. Trovo che troppo della contemporaneità tenda ad appiattirsi dentro a uno storytelling monetizzato e spettacolare, peggio, festaiolo, e il mondo dell’arte non fa eccezione. Ma va bene così, si sta al passo e ci si sforza di lavorare a qualcosa che abbia un’identità significativa. In ogni caso quello dell’arte è un sistema che, anche quando sbaglia, tende a produrre qualità, frequentarlo (per un artista) è sempre il miglior modo di sviluppare senso critico.
Che domanda vorresti ti facessi?
Perché fai quello che fai?
Perché mi è più facile farlo che non farlo, va da sé, risulta tecnicamente dolce.
Intervista a cura di Alberto Pala