Lorenzo Kamerlengo nasce a Pescara nel 1988. Artista in costante movimento, è oggi attivo fra Milano e la città natale, dopo aver concluso il suo percorso formativo internazionale presso l’Accademia di belle arti dell’Aquila. Dalla danza alle arti visive, la sua volontà espressiva si sviluppa intorno a una precisa necessità narrativa che lo inserisce a pieno nella ricerca estetica attuale. Le sue opere raccolgono le parti di un racconto, pezzi di una storia da narrare per sentimenti e per sineddochi. Installazioni e performance giocano con l’etimologia delle parole per proporre una vicenda che si nasconde e appare, per proporre intimi mondi alla ricerca di una stabilità insicura.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Io vengo dalla danza, ho fatto il Liceo Artistico e l’Accademia ma fino a cinque anni fà mi esprimevo quasi completamente attraverso il corpo sulla musica. Nel 2012 ho fatto la mia prima mostra, quindi è tutto piuttosto recente.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
“Tematiche” mi spaventa un po’ come parola. Credo che lavorando per diverso tempo inizi a intuire delle cose che ritornano nel tuo lavoro, o nel tuo modo di lavorare. Nella danza è la stessa cosa, quando ti lasci andare nell’improvvisazione, il tuo corpo ti trasporta verso certi movimenti in maniera automatica, a volte ti accorgi che certi movimenti tornano e tornano e tornano, tu non capisci perchè il tuo corpo ti porta sempre li, eppure ci vai. A quel punto puoi scegliere se assecondare quello che accade oppure remare contro, ma in entrambi i casi non si scappa. Nel caso dell’arte visiva, per esempio, ho sempre avuto un senso di sospetto verso tutto ciò che appare completo. Questo mi porta a togliere un pezzo da qualcosa che sembra ok, aggiungere un pezzo a qualcosa che sembra ok, dare uno sgambetto a ciò che sta in piedi e alzare qualcosa che non si tiene in equilibrio, mi porta a forzare la realtà e vedere se resiste o per lo meno cosa succede.
La completezza mi appare transitoria, a volte una convenzione, a volte consolatoria, a volte illusoria. Anche in matematica l’unità è definita come “la condizione di essere uno e non più di uno”, eppure ciò che ora è unità, può essere diviso in due, tre o quattro parti.
Il mondo può apparire come un grande puzzle, di pezzi che non sempre combaciano nel modo giusto. Riguardo i progetti in programma, sul mio sito c’è un countdown. Se oggi mi invitano a una mostra che si terrà tra un mese, imposto il countdown a 30 giorni e inizio a lavorare.
Lui scorre giorno e notte, ora segna 105 giorni, 23 ore, 45 minuti e 39 secondi.
Mi tiene concentrato.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Io sono nato a Pescara, ma da diversi anni mi sposto a ritmo quasi costante di città in città, per citarne qualcuna: L’Habana, Roma, Bilbao, New York, Berlino, Melbourne e ultimamente Milano, quindi non ho instaurato una relazione duratura con un luogo in particolare.
Quello che mi interessa nelle città è creare delle routine dove le vie, gli spazi e i percorsi diventano familiari e intimi. Non mi interessa molto visitare, nel senso turistico del termine, mi interessa molto conoscere gli artisti che vivono nel luogo in cui mi trovo.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Percepisco sicuramente il grande potere di esclusione che può avere il mercato dell’arte, quando porti avanti una ricerca che non termina necessariamente in un oggetto che possa essere appeso su di una parete. Altre questioni interessanti sono Internet e la globalizzazione, che tra le mille trasformazioni incredibili che portano con loro, stanno generando delle convergenze stilistiche fortissime.
Il sistema dell’arte che a me interessa è quello che mi connette con degli interlocutori, persone disposte a dedicare del tempo e disposte al dibattito onesto. La tua attitudine come essere umano può fare la differenza, così come la serietà e il cuore che metti nel lavoro.
Non mi interessa, invece, andare alle mostre per bere qualche drink o per perdermi troppo in chiacchiere spassionate con amici e colleghi.
Mi capita di farlo, ma la maggior parte delle volte tento comunque il confronto con l’artista e di concentrarmi sulle opere, anche durante gli opening. Le inaugurazioni delle mostre stanno diventando sempre più delle feste e momenti di celebrazione più che di confronto, il che è piacevole e positivo, ma non se sono la maschera dell’indifferenza. L’indifferenza è molto diffusa e lascia un senso di vuoto. Lo si tenta poi di colmare con qualche intervista, like sui social, comunicati stampa o articoli sulle riviste, ma è un illusione. Dentro di noi lo sappiamo tutti che vorremo qualcosa in più di questo, e credo sia una questione di avere il coraggio di tentare direzioni diverse, continuando a rimanere all’interno del dibattito dell’arte contemporanea e senza diventare nostalgici.
Che domanda vorresti ti facessi?
Ahaha
Immagine di copertina: Lorenzo Kamerlengo, ph Roger Ang
Intervista a cura di Marco Roberto Marelli per FormeUniche