L’artista Leeza Hooper nasce nel 2009 in Italia, l’uomo molti più anni prima, ma non è importante. Quello che invece conta è la sua ricerca, la struttura dei suoi pezzi, il concetto profondo di quella “possibilità di composizione” dell’opera stessa nel tutto.
Fra le figure più interessanti nel panorama odierno in Italia, Leeza Hooper è un artista che resiste nonostante l’essere “sporco” e avulso da un sistema che porta al conformarsi a delle regole compositive e comportamentali. La sua caparbietà è la forza di tutti quelli che, come me, si esprimono in molteplici sensi usando la pittura come mezzo.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti tra i tuoi esordi e oggi?
Ciao Michael. Ho cominciato a chiudere i primi lavori nel 2004. Lo faccio seriamente dal 2009, praticamente da quando ci conosciamo io e te. Dal 2011 considero la mia poetica strutturata. Se dovessi dire quando è sorta la mia poetica ti direi dai miei lavori su carta millimetrata fatti con Microsoft Paint. Ogni passaggio è necessario, errori compresi, ma è lì che sono sorto davvero come individuo artistico, come poetica a sè, almeno credo. Di differente tra allora ed oggi c’è sicuramente l’approccio. Un tempo producevo tantissimo, e volevo chiudere più opere possibili per poterle poi utilizzare come base dei miei lavori successivi, ero intento a porre le basi di me stesso. Oggi cerco di fare cose che mi piacciono, lavori di stile e di struttura, le realizzazioni che vorrei rimanessero, insomma. Oggi la base della mia poetica è già stata posta, quindi mi muovo con più calma e confidenza.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
I miei lavori trattano di epistemologia, in qualche modo. Faccio composizioni che cercano di indagare la struttura e le possibilità della composizione. Diciamo che ho un approccio puramente formale alla composizione ma allo stesso tempo molto carnale. Trasformo in elementi formali di una composizione degli elementi molto personali e psicologici della mia vita. Credo che chi osserva i miei lavori se ne renda conto. Più o meno siamo della stessa scuola, Michael, tu sei stato un apripista rispetto a questo approccio compositivo, vedi le tue installazioni. Personalmente ho sempre avuto dei problemi con le rappresentazioni positive di immagini, nel senso di non-contraddittorie. Il fare un semplice ritratto mi si è sempre rigirato contro come procedura. Se crei un’icona (un’immagine lineare, con una narrazione lineare) poi quella icona stessa ti costringe a idolatrarla, a doverla difendere anche se il tuo istinto è quello di distruggerla e decostruirla, ovvero di essere iconoclasta. Un approccio basato su di una procedura aperta mi ha permesso di non dovermi scagliare contro i miei lavori, di conviverci perché, essendo aperti, associativi, poliedrici, non comportavano una staticità da dover contrastare e dinamizzare. Quei pezzi che faccio a carattere figurativo, si veda una figura che compie un’azione o simili, sono comunque lavori aperti, stranianti, che dinamicizzano il senso e l’apertura dell’opera (si vedano le varie vittorie con joystick o le assonometrie che sto sviluppando ultimamente). Infine c’è una parte di me che cerca di rappresentare la bellezza del mistero dell’arte nelle opere che produco, quel qualcosa che è insondabile, il segreto che gli artisti conoscono e per il quale, di fatto, vivono. Il colore è un miracolo, una lingua a sé. L’equilibrio formale è una rivelazione. Gli artisti che conoscono la mistica dell’arte lo sanno e cercano questo tipo di esperienza. C’è quindi una parte del mio lavoro che è assolutamente non-verbale, non-segnica e completamente misterica.
In programma ho una personale che ricopre un arco di tempo davvero lungo di produzione, dal 2011 in poi. Ma cerco ancora il momento e il luogo giusto per farla.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Vivo a Perugia. Il rapporto con la città dal punto di vista artistico è di serena convivenza, anche se, naturalmente, non è un grande centro e di gallerie ce ne sono poche. Per un periodo, fino a qualche anno fa, si faceva di più, ora, con la crisi, anche i piccoli players volenterosi sono in sordina. Ma credo che questo sia avvenuto in tutta Italia. Speriamo che in futuro ci sia di nuovo un buon fermento. Io faccio le mie cose, e miei referenti in ogni caso non sono necessariamente a Perugia o in Umbria, anzi. Comunque Perugia è una bellissima città, chi la conosce la ama.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea ?
Domandone. Il sistema dell’arte, se lo intendi come vita da vernice, è fantastico, una vita passata a bere prosecco e a dire niente e a farsi vedere in giro. Poi c’è il sistema dell’arte che è un codice linguistico e comportamentale, ed è questo suo aspetto che lo fa sembrare ostico a chi lo guarda da fuori. Ma chi ci si addentra e si inizia a questa lingua capisce poi che il “sistema” serve a preservare la qualità dell’arte. Man mano che passa il tempo capisci che sono gli stessi artisti che fanno entrare o non entrare chi chiede di essere riconosciuto come artista e che questa è una procedura assolutamente necessaria. I codici comportamentali servono a vagliare, a far passare il tempo e conoscersi, per vedere chi ha la forza, lo stile e i contenuti per resistere. A parte l’aspetto apparentemente superficiale, quello mondano, per gran parte il sistema è fatto di amore vero per l’arte, di gente che ha cominciato con l’arte e non ce la fa più a smettere. Date queste premesse, al momento, per me il “sistema” è una serie di persone per cui tifo e a cui sono affezionato, non vedo le pose che si fanno in quanto artisti, ma le persone (anche perché molti di questi li conosco da tanto tempo). Insomma, voglio bene a un po’ di gente, anche se non sembra.
Quale domanda vorresti che ti facessi?
Nessuna in generale, Michael, sta bene così. Mi sono divertito già abbastanza a rispondere a quelle precedenti. In bocca al lupo con i tuoi lavori come al solito. Sempre viva l’arte, e chi continua a fare ricerca.
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Intervista di Michael Rotondi