Jonathan Vivacqua è nato nel 1986 a Erba (Como), dove continua a mantenere il suo studio nonostante viva a Milano. Le sue opere riflettono il fare manuale, da cantiere, quello grezzo e autentico che crea ed è, a sua volta, metafora ed essenza della produzione artistica. L’obiettivo di Vivacqua è immergere lo spazio e le opere nella loro forma più basica, rubando a mani basse dai cantieri tubi e lastre di cartongesso, barre d’alluminio e polistirolo ad alta densità. Poi, allestiti con un’eleganza unica, da elementi costitutivi di un contenitore (la costruzione edilizia) questi materiali divengono contenuto lacaniano e significante di per sé, cancellando il significato originale per costruirne uno nuovo.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti tra gli esordi ed oggi?
Da quando sono nato la cosa più semplice che mi veniva da fare era leggere il linguaggio dell’arte, molto più semplice che leggere un libro o altre forme di comunicazione. Anch’io mi rivolgo al mondo col medesimo linguaggio. Poi “artista” o “non artista” ci sono varie fasi: quando tu lo senti, quando gli altri te lo fanno sentire, quando vieni riconosciuto come tale e strutturi questa cosa come vero lavoro. È un po’ come se dovessi farlo capire anche agli altri. È triste, però rimane comunque il “mestiere” più bello del mondo.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
L’ultima serie di lavori ha a che fare con l’edilizia, le costruzioni, gli spazi vitali e le relazione che ci sono tra l’uomo, i contenitori e le costruzioni in generale. Rivolgo l’attenzione agli elementi strutturali e ai progressi costruttivi che ci sono stati fino a oggi. Analizzo la situazione dell’edilizia come se fosse una fine. Da lì ho deciso di trasformare quello che ormai trovo saturo in altro. A breve sarò in mostra da The Flat, a Milano, in una collettiva.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Male. Vivo a Milano, ma non mi sento un ragazzo di città. Questa città fisicamente mi fa male. Mentalmente è come se sentissi il bisogno di viverci, però continuo a tenere lo studio fuori, come per non volermi concedere totalmente e snaturarmi.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Quello italiano o internazionale? Posso parlare di quello che vivo, che è quello italiano, che credo subisca molto l’influenza straniera: ancora oggi quello che arriva da fuori viene visto come molto più figo, ed è una cosa strana. Il sistema dell’arte è una cosa dove ci devi stare se dialoghi in un certo modo: se facciamo arte dobbiamo per forza navigare in quella roba lì. Magari anche cambiando delle cose, però chi se ne frega. Si possono fare osservazioni e contestare alcune piccole realtà o situazioni, ma il sistema dell’arte in generale è il risultato di tutto ciò che c’è stato attorno fino adesso. Se è ancora disponibile ad ascoltarmi vuol dire che un po’ ha a che fare anche con me.

Che domanda vorresti ti facessi?
Vorrei che mi chiedessi: “Vuoi scommettere un viaggio con una corsa in auto? chi perde paga!” E io risponderei: “Sì, grazie, è un’ottima domanda”. Ti piace la mia risposta?
Non molto: so come guidi e non scommetterei mai contro di te!
Intervista a cura di Claudia Contu per FormeUniche