Jessica Iapino è nata il 14 Ottobre 1979 a Roma, città dove vive e lavora. Dopo essersi diplomata alla Marymount International School continua i suoi studi presso la A.U.R. American University. La sua formazioni si sviluppa attraverso un percorso interdisciplinare che amplia gli interessi dell’artista e la conduce, nel 2015, all’esordio sulle scene attraverso una visione personale che indaga il medium cinematografico. Partendo da una posizione autobiografica, esplora il mondo e ne evidenzia limiti e contraddizioni attraverso una volontà che si scaglia contro l’ipocrisia generalizzata facendo uso di differenti linguaggi per trasmettere molteplici significati.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Ho percepito fosse da sempre nel mio DNA, come una forma espressiva dilatata, in continua evoluzione. Sin da molto piccola sentivo l’esigenza di “creare” e sperimentavo di continuo con materiali insoliti: scolpivo il legno e componevo installazioni meccaniche (tentando di animarle) con qualsiasi cosa trovassi nel cortile di casa. Crescevo assimilando la danza, la pittura e la regia, attività professionali dei miei genitori. Tra le mie esperienze professionali pre-accademiche ricordo soprattutto quella nelle piattaforme mediali – come la costruzione di uno spettacolo – poi l’Accademia di Belle Arti con lo studio dell’anatomia e della scultura. Di recente ho elaborato uno studio con basi scientifiche e pratiche di arte culinaria.
Non a caso la mia prima mostra personale, nel 2005, si fondò sull’approfondimento di un mezzo allora parzialmente inesplorato: il video, in una ricerca quasi antropologica di “sguardi” attraverso i media, un “cinema espanso” – una ricerca video come “mezzo” e non orientata verso il linguaggio narrativo cinematografico – confluito poi in grandi produzioni (a partire dal primo video “street-game (HERO)”, presentato da Paola Maugeri nella trasmissione la “25° Ora”) e in un periodo intenso tra mostre collettive e Film Festival.
Dopo il lavoro presentato a Roma, da VM21, mi sono dedicata a tre produzioni video piuttosto impegnative tra cui una al Teatro Valle Occupato. Le recenti opere sono nate durante 4 anni di ricerca interiore, a distanza dal sistema che avvertivo come rifiuto fisiologico, come “AUTOVIOLATIONPRIVACY” presentata recentemente e tuttora in via di svolgimento in sedi varie, istituzionali e urbane. Si tratta di una riflessione a tutto campo (con mezzi diversi e l’ausilio di una performance) sulla sopravvivenza dell’identità violata.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Parto sempre dalla mia interiorità e dal mio vissuto quotidiano per giungere all’analisi degli aspetti sani e malsani della società in cui vivo. Uso la metafora e spettacolarizzo gesti quotidiani, mandandoli in loop, per scandagliare la contemporaneità setacciando il passato. Intendo la mia ricerca come un monito: desidererei che certe storture sociali, come il voler annullare il prossimo, non si ripetessero.
L’opera My Name is Omar, un po’ il mio “logo-statement”, parla di identità violata, genotipica, sacra, sociale e di genere: per ribadire che in una persona esiste sia la parte femminile sia quella maschile senza che sia necessario imporre a essa di ricorrere a una doppia denominazione (la mia identità la stabilisco solamente io).
Da tre anni sto sviluppando un lavoro ragionando sulla violazione dell’identità in maniera più specifica e allargata su un pensiero di cultura globale e “di genere”. Un lavoro molto grande e complesso che tenta di sfuggire dagli schemi e si suddivide in tre grandi operazioni tra cui una mostra personale.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Sento la città in cui vivo come una “compagna di viaggio”, che invecchia insieme a me. Talvolta come una gabbia da cui non poter uscire fisicamente. Ma è Roma, la Capitale, inevitabilmente precipitata nel degrado più totale, insieme a gran parte dei suoi abitanti. È inevitabile collegare tutto ciò a una generale incapacità governativa. Poco dopo la presentazione di un progetto mi “autopurifico”, ne elimino le scorie e riesco a scorgerla come una città “nuova” e riprendo a osservarla con un altro sguardo.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
In generale temo esistano vari sistemi e livelli all’interno di un sistema. Senza che ne sopravviva uno imparziale, quindi davvero efficace. Come un detenuto in carcere, istintivamente tento di “rompere i suoi schemi” per evadere. Cerco di mantenere la mia integrità senza essere coinvolta o condizionata da alcuna azione negativa dello stesso.
Che domanda vorresti che ti facessi?
Quella a cui non saprei proprio cosa rispondere: “Qual è il tuo nome: Jessica o Omar?”
Immagine di copertina: Myself, ventisetteagostoduemilaquattordici – Polaroid, 8,5 cm X 10,8 cm – Courtesy l’artista
Intervista a cura di Marco Roberto Marelli