Giulio Alvigini è nato nel 1995 a Tortona e oggi, come molti giovani artisti italiani semplici, studia, vive e lavora fra Torino e il mondo (alcuni sospettano per appagare inconsciamente il segreto amore per Ilaria Bonacossa). Al centro della sua ricerca si pone la realtà di tutti i giorni, i meccanismo che la regolano, le dinamiche di un sistema in cui arte e stereotipi si mescolano. L’ormai celebre pagina di memi (makeitalianartgreatagain) è solo una parte di un processo iniziato nel 2014. Soggetto preferito di operazioni performative e dispositivi visivi era Maurizio Cattelan; non l’artista ma lo stereotipo italiano per eccellenza di un certo sistema artistico nostrano. Rifare Cattelan superandolo “a sinistra”, rendendolo quasi un raffinato e gioioso ready-made alvigiano. Come un professore affermato, oggi Giulio si muove di conferenza in conferenza, agita Instagram con i suoi memi, occupando ruoli e professioni “altrui”. Grande comunicatore, fa arte in maniera colta, dissimulando.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Ho iniziato a esporre nel 2014, durante il primo anno d’Accademia ma fortunatamente fuori dalle mura di quest’ultima.
Potrei riassumere le vicende del periodo preso in esame così: “Ok, ti sei iscritto in Accademia e vuoi fare l’artista. Mettiti il cuore in pace, tanto per i prossimi 3/5 anni sarai sempre e comunque un epigono e non inventerai nulla, quindi accetta la condizione dello scopiazzatore tanto da farla diventare un discorso”.
Oggi faccio i meme sul sistema dell’arte italiano.
Trova le differenze.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Sono un osservatore delle dinamiche di sistema, analizzo e studio quelli che sono i modelli, le contraddizioni e le isterie che caratterizzano il mondo dell’arte. Cerco il più possibile di astrarre la condizione del giovane artista, individuarne un processo fatto di stereotipi e tappe obbligate quasi facendo, del percorso di imposizione del lavoro all’attenzione degli insiders, il lavoro stesso.
Una fascinazione tutta particolare definisce il mio rapporto con quel sistema-antisistemico italiano che considero la vera grande opera, la più rappresentativa della nostra identità nazionale.
Il tutto esaminato attraverso la lente dell’ironia, con sfumature di sarcasmo, cinismo e idiozia “a tuono”.
Nei prossimi mesi mi aspettano vari talk/conferenze su Make, una rubrica su meme e sistema dell’arte, una personale a Bologna e la co-curatela di una residenza.
Per i dettagli è già troppo tardi.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
In realtà negli ultimi anni ho cambiate “base” più volte. Sono nato a Tortona, conosciuta dai peggiori gangster basso-piemontesi come “The big cake” o descritta dai più degeneranti comici nostrani con l’epitaffio “la città dei dolci grandi”. Sono cresciuto a Garbagna, un piccolo borgo nell’alessandrino, dove vive tutt’ora la mia famiglia mentre – dal liceo in avanti – ho passato diversi anni vagando tra Genova, Torino e Milano (il triangolo industriale per i più studiati, quello dove spariscono le auto nella nebbia, per i più complottisti). Negli ultimi tempi ho frequentato molto il
territorio urbinate dove ho trovato un posto da cui sinceramente non vorrei mai più distaccarmi.
In definitiva, mi rapporto costantemente con diverse città per vari motivi: che sia per scuola, lavoro, cuore o ancora lavoro l’importante è avere a disposizione quella imprescindibile passeggiata mattutina, possibilmente nel verde, che tanto rigenera le membra e riordina i pensieri.
Per rispondere al quesito, vivo la città camminandola.
Ah, anche il Wi-Fi deve esserci.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
“Mostrami i meme che fai e ti dirò che cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea”.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
A questo punto potrei concludere con la solita barzelletta dove ci sono un giovane artista italiano semplice, uno francese e uno tedesco oppure quella freddura che in genere fa maledire al lettore la sciagurata decisione di essere arrivato a leggere l’intervista fino in fondo.
Per FU mi piacerebbe invece parlare della cover realizzata per l’occasione.
Buster Keaton è una delle mie ossessioni. Non credo troppo nei numeri e negli allineamenti astrali ma, un po’ come tutti, anch’io quando osservo quelle coincidenze interessanti, proietto nella mia testa – per non più di quattro secondi – le visioni e le cosmologie masturbanti più improbabili.
Siamo entrambi ottobrini (il suo 4 vs il mio 26), ci separa un secolo (1895 vs 1995); è centenario anche tra il suo primo film e la mia prima personale (“The butcher boy” del 1917 vs “No more!” del 2017) e tralasciando ulteriori dettagli come l’attitudine all’ironia e acrobazie concettuali varie, tutti quelli che sottopongo illegittimamente alla visione dei suoi film, alla fine mi sottolineano la somiglianza fisionomica del volto.
“Buster” inoltre, che è il nome che gli diede Houdini dopo un capitombolo giù per le scale a soli 5 mesi, si potrebbe tradurre come “fenomeno” mentre “fenomeno di internet” è la traduzione che spesso si accosta alla definizione, anche se un po’ sommaria, del “meme”.
L’altro caposaldo della mia filmografia slapstick è Chaplin. Le due nemesi mute mi salvaguardano le giornate, Keaton lo guardo quando sono depresso mentre Chaplin quando sono ancora più depresso: tutti i giorni, al mattino Keaton e alla sera Chaplin.
Tra i due ci sono esattamente 6 anni di differenza (Carlo Chaplin è del 1889)…
“Quindi? dove vuole arrivare?” vi starete chiedendo.
“Niente”, semplicemente cercavo di distrarvi mentre vi rubavo il portafoglio.
a cura di Marco Roberto Marelli
Instagram: makeitalianartgreatagain
Caption
Giulio Alvigini, Come vinsi la guerra dei meme (Make Buster Cover), 2018 – Courtesy l’artista.
Giulio Alvigini, Ilaria Bonacossa sei la mia vita, 2017, installazione – Courtesy l’artista.
Giulio Alvigini, Quando devi realizzare un’opera per BoCs Art, 2018, installazione – Courtesy l’artista.