Chioma tizianesca, occhi lontani e luminosi come il cielo, Giulia Manfredi nasce nel 1984 fra la terra, l’Emilia e la Luna. Dopo essersi laureata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna ha completato il suo percorso di studi frequentando l’UDK di Berlino. Oggi vive e lavora fra Roma e il suo studio di Piumazzo, antica e piccola frazione in provincia di Modena. Recente vincitrice, con l’opera Nigredo, del celebre cubo di marmo di Candoglia del Premio Cramum, la giovane artista italiana sviluppa un percorso estetico elegante e profondo, dove natura e materia si fondono e contrappongono. Alla ricerca dell’anima delle cose, le sue realizzazioni fermano il tempo, si proiettano in un altrove assoluto, coinvolgono lo spazio e trasformano la materia donandole una natura iperuranica e saldamente transitoria.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Sono sempre stata affascinata dall’arte in tutte le sue forme. Mia madre mi portava, sin da bambina, nei musei più importanti e mi comprava libri e riviste. Non so veramente a quando risalga il passaggio da non-artista ad artista e non so quanto sia facile definire questo processo. So che, a un certo punto, ciò che intendevo esprimere e ciò che prendeva vita nel mio lavoro cominciavano a coincidere. Forse questo è successo otto anni fa.
Agli esordi avevo un approccio più caotico all’arte, ero affascinata da molte realtà diverse e cercavo di esprimerle tutte. A un certo punto la nebbia ha cominciato a diradarsi e si sono concretizzati simboli e immagini più chiare, soggetti e tematiche a cui sento ancora oggi di dover dare corpo e voce.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Sono cresciuta in campagna, il rapporto uomo/natura mi ha sempre affascinato, il tentativo di controllare, modificare e ordinare ciò che ci circonda fa parte della nostra essenza e ha accompagnato la nostra ascesa (e forse anche la nostra disfatta) come specie animale. Nel mio lavoro questa ambivalenza è molto presente, da un lato il tentativo di rappresentare la forma naturale nella sua interezza, dall’altra l’esigenza di contenerla e limitarla nello spazio. Spesso questo processo è legato al concetto di musealizzazione e alle dinamiche che portano un soggetto a essere estrapolato dalla realtà che lo circonda e a perdere il suo posto nel mondo per poter diventare oggetto-simbolo, preservato indefinitamente all’interno di una teca.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Il luogo in cui vivo ha un fortissimo impatto sul mio lavoro. Le resine hanno un forte collegamento alle mie radici emiliane, alle nebbie e alla pianura. Berlino invece, città in cui ho vissuto per diversi anni, mi ha portato a sperimentare con la video arte e l’animazione. Roma infine, città in cui mi trovo ora, mi ha indirizzato verso materiali più durevoli come il marmo e le pietre.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Il sistema dell’arte contemporanea è una creatura inquietante. Non è facile continuare a fare arte se la guardi negli occhi. Perciò penso sia fondamentale fare ricerca e lavorare in primis per se stessi, per una propria esigenza espressiva e per un desiderio di connettersi con gli altri. Penso che solo con questo spirito si possa trovare un posto reale nel mondo dell’arte, chi non lo fa rischia di sentirsi annullato e schiacciato da dinamiche incontrollabili e predeterminate, espressione dalla moda del momento e del denaro.
Che domanda vorresti ti facessi?
Secondo me avete fatto il perfetto numero di domande così.
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Intervista a cura di Marco Roberto Marelli per FormeUniche