Giovanni Termini nasce nel 1972 ad Assoro, in Sicilia, e oggi vive e lavora a Pesaro, insegnando nella vicina Accademia di Belle Arti di Urbino. Formatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, la sua ricerca si focalizza su un fare scultura che porta l’attenzione sul processo e sulle possibilità, realizzando opere che, attraverso il meccanismo del paradosso, analizzano la produzione estetica stessa, il suo farsi in un ottica e attraverso delle modalità che ben lo inseriscono nella generazione “fredda” degli artisti nati negli anni Settanta.
Da quanto tempo fai l’artista e quale differenza noti tra i tuoi esordi e oggi?
Essere artista lo dicono gli altri, fare l’artista lo decidi tu! Resta un’incognita stabilire qual è il male minore! Forse da giovane ho creduto di poter essere un artista perché da bambino riuscivo benissimo a copiare l’immagine stampata sulle buste delle patatine?!?
In realtà, per molti anni, è come se fossi stato in palestra ad allenarmi e quindi la ricerca era soprattutto legata all’arte e rivolta al confronto con un presente ormai passato. Successivamente, la cosa per me più importante, è divenuta la necessità di essere autonomo al di là del tempo, sempre e comunque nel tentativo di coniugare passato presente e futuro.
Mi sono così reso conto che non era più soltanto una questione di appartenenza ma piuttosto l’urgenza di dare forma a quello che sentivo.
Una data importante è stata il 2001, segnata dalla realizzazione dell’opera Celare l’attesa perché, da quel momento in poi, si sono innestati processi poi divenuti centrali per la formulazione dalla mia poetica.
La differenza tra esordio e presente? Spesso mi chiedo in che percentuale è dovuta al mio percorso o
al mondo che in questi decenni è cambiato con grande rapidità. Quando ho iniziato, ogni cosa appariva come una conquista, avevo l’idea che il tempo lavorasse per me. Oggi tutto è più veloce, compreso le informazioni, e percepisco, soprattutto nei giovani che ho la fortuna di frequentare in Accademia, altre priorità e un’ansia ben diversa.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Il tempo umano. Trasversalità dello sguardo. Non m’interessa la cronaca degli eventi ma quello che gli eventi determinano, i resti che non sono memoria ma vie di transito e luoghi attivi di riflessione. Un aspetto spesso presente nella mia ricerca è il paradosso che lavora alla defunzionalizzazione degli elementi.
Tra i prossimi progetti ci sono, a fine mese, una mostra in Venezuela e subito dopo un’altra in Cina, nel frattempo lavoro anche a una mostra personale a Bologna.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Vivo a Pesaro e mi trovo benissimo. Vivere in una città di mare, essendo nato in Sicilia, è importante. Tra l’altro a pochi chilometri c’è Urbino, dove insegno presso l’Accademia. Preferisco vivere lontano dai ritmi delle grandi città pur confrontandomi spesso con esse, con tutto quello che accade in quei luoghi.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
La scelta di vivere in una città al lato dei grandi eventi è già una risposta. Ho la possibilità di concentrarmi per prima cosa sul mio lavoro pur avendo la consapevolezza che non ci si può isolare. Sistema vuol dire confronto/sostegno e il confronto, per me, è un dialogo costruttivo, fondamentale nello sviluppo della mia ricerca. In Italia, se a questa ci riferiamo, critica, gallerie e musei fanno fatica a fare sistema.
Che domanda vorresti che ti facessi?
Dell’arte c’è da essere fièri o l’arte è una fièra ?
L’arte è un infierire in fieri!
Intervista a cura di Alberto Pala per FormeUniche