Giovanni Ricciardi nasce nel 1977 a Castellammare di Stabia, comune italiano della città metropolitana di Napoli, e oggi vive e lavora a Milano. Si diploma nel 1998 presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e, giovanissimo, entra in contatto con Emilio Tadini ed Enrico Baj (sulle orme di quest’ultimo, si accosterà, nel 2001, alla Patafisica). Nel 2002, presso l’università Irachena delle belle arti di Baghdad, lancia il primo atto del Steady Link Project, un insieme di performance e installazioni. Aperto all’utilizzo di vari media, le sue opere fuggono dalla rappresentazione per evocare, con pochi tratti evanescenti, forme, soggetti e profonde atmosfere.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
La giovinezza nella pratica creativa è paragonabile a quando fai un viaggio, per la maggior parte riempi le valigie di cose che non indosserai, più sei giovane più le riempi, poi, nel tempo, impari a portarti dietro solo le cose che indossi sul serio. In questo senso per me l’arte è un viaggio, una questione di sopravvivenza praticata con un impellente senso di urgenza. La maturità poi scarta il superfluo portando alla luce la tua essenza, la tua matrice. Io sono nato tra le sculture e l’umidità dello studio di mio padre Mario Ricciardi, con cui ho intrapreso questo fantastico cammino senza riuscire più a farne a meno. Per il resto cosa cambia, cambia tutto forse, credo che l’unica cosa che non possa mai cambiare nel corso di una vita sia la propria poetica, quella è il vero dono che contraddistingue ogni singolo artista e lo rende riconoscibile dalle sue opere. Non parlo certo di forma come stile, la parola stile non significa nulla, oggi giochiamo troppo su questa ambiguità. Bisognerebbe definitivamente far capire la differenza tra poetica e stile. Bisognerebbe studiare, contro l’improvvisazione che impera.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Le tematiche mi hanno sempre annoiato, il tema, il soggetto, l’ho sempre evitato o almeno indicato come pretesto. Non ho mai creduto alla libera scelta delle proprie tematiche, credo invece che queste si svelino naturalmente in un lavoro che ruoti intorno alla propria intimità. Se c’è un filo che unisce tutto il mio lavoro è quell’ingenuo tentativo in cui cadiamo spesso, di trovare un attimo di eternità nel tempo inafferrabile della vita. Ciò che cercava Francis Bacon nei suoi volti deformati oggi lo cerchiamo forse sempre più in profondità attraverso variazioni sottili di spazi, materie deformate dal tempo e mondi in tumulto.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Mi comporto da perfetto traditore, non sto un attimo fermo e forse, tredici anni fa, venuto via da Napoli, ho scelto Milano essendo la città italiana che più mi somigliava e perfetta per spostarsi ovunque. Viaggio e ho viaggiato molto, soprattutto per le mostre all’estero, da Tokyo a Boston, Da San Paolo a Istanbul passando per Parigi e Baghdad. Vedere le mie opere come rispondono in contesti culturali completamente diversi è un momento di verifica per me fondamentale.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Ad alti livelli è soprattutto un sistema economico sbilanciato e inarrestabile. Attribuisco la maggior parte delle colpe alle case d’asta le quali, sempre più in “sintonia” con le più potenti gallerie d’arte, hanno generato un nuovo modello di borsa valori, i prezzi, essendo determinati da domanda e offerta come in un qualsiasi mercato, sono troppo facili da gestire. Domandiamoci cosa accade quando si spinge adeguatamente la domanda attraverso le grandi gallerie. D’altra parte anche uno dei più grandi e quotati artisti al mondo come Gerhard Richter si è dichiarato contro questo modello economico.
Ma quello che più preme su questa grande speculazione è il seguito sulle opere d’arte, le quali sembrano il frutto di uno scarto più che di una produzione artistica. Scarto e arrendevolezza in ginocchio a una semplicistica soluzione formale oramai quasi sempre concettuale. Trovo che da una parte siamo fermi da oltre cinquant’anni al Fluxsus, dall’altra davanti a colossal cinematografici in salsa Harry Potter.
Ad ogni modo, ho sempre avuto fiducia negli artisti, credo in quei galleristi e collezionisti che hanno meno voglia di vivere il mondo dello spettacolo, quelli che vivono il mistero dell’arte e non la sua spettacolarizzazione. Ce ne sono eccome, ma si confondono nel caos.
Che domanda vorresti ti facessi?
Vorrei fartene io una: “La poetica oggi è la valigia o il contenuto?”
Immagine di copertina: Ritratto di Giovanni Ricciardi, 2017 – ph Nathalie Tufenkjian
Intervista a cura di Alberto Pala per FormeUniche