Five Questions for Alessandra Cecchini

Alessandra Cecchini, classe 1990, originaria di Rieti, ho avuto modo di conoscerla grazie a una recente esposizione negli spazi di Seven.bo nella città di Bologna, curata da Jana Liskova. Il titolo della mostra riassume in poche parole la poetica dell’artista: Familiari sconosciuti. Il lavoro della Cecchini, infatti, si basa su una continua ricerca e riscoperta della e nella memoria, tra gli interstizi del ricordo e dell’origine. Una preziosità di sguardo che la avvicina a uno dei più grandi maestri: Christian Boltanski.
Ma non solo, la Cecchini diplomata in pittura prima all’Accademia di Belle Arti di Perugia poi a quella di Bologna, sfrutta il gesto in maniera profondamente espressiva, come una voce, la grafite si posa sulla carta, urlando in silenzio, per ricamare tramite il disegno un tempo che ormai non è più.
Attualmente è iscritta al CFA per Curatori e organizzazione di eventi presso lo IED di Roma.


Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra gli esordi e oggi?

Il percorso è stato graduale e a una fase di ricerca ne è seguita una di presa di coscienza. Ho iniziato l’Accademia di Belle Arti nel 2011, ma come è ovvio, non si inizia questo tipo di studi con un’idea chiara in testa di quello che si arriverà a fare. Credo più che altro che una certa esigenza ci sia sempre stata.
In ogni caso, quello che vedo nei miei primi lavori mi piace ancora e ancora lo riconosco in quello che faccio oggi. Non mi sono mai allontanata dalla mia ricerca iniziale, se non per aumentarne il raggio d’azione. Certo è che quattro anni fa il mio linguaggio era molto acerbo, e ancora in via di definizione. Ma è giusto così: è e deve essere un percorso di crescita e di continua messa in discussione.

Alessandra Cecchini
Familiari Sconosciuti, 2017 – courtesy l’artista, ph Alessandro Padalino

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?

I miei lavori riguardano la memoria, individuale e collettiva. Finora ho indagato questo campo vastissimo attraverso diversi media, mantenendo sempre però un legame privilegiato con il disegno. Ogni lavoro va poi a toccare altri temi strettamente connessi alla memoria – come ad esempio l’identità, il rapporto dell’uomo con i mass media – andando ad analizzare in particolare come la tecnologia modifica la nostra percezione del ricordo.
Poi ci sono lavori più intimi, che riguardano una dimensione privata e personale della memoria; ma anche questi riflettono su una condizione contemporanea e che riguarda tutti noi, che affidiamo sempre di più il ricordo all’immagine, all’oggetto, a qualcosa di materiale che ci illude di poter fermare il tempo e fuggire l’oblio.
Mi interessa molto questo aspetto legato a una certa materialità del ricordo; mi affascina la consistenza degli oggetti, delle fotografie che provano l’esistenza di qualcuno o qualcosa, ma che raccontano sempre storie a metà; non ci sono verità a rassicurarmi, non c’è interezza. E così nei miei disegni, e più in generale nei miei lavori, cerco di restituire questa incompletezza, questo misterioso fascino.

Per quanto riguarda i nuovi progetti, ora come ora sto ancora lavorando alla serie Familiari Sconosciuti, che ho portato in mostra a Bologna un mese fa; è un progetto infinito, nato da una piccola valigia, appartenuta alla mia nonna paterna che non ho mai conosciuto. All’interno di questo piccolo scrigno di cartone e cuoio ci sono fotografie di famiglia, biglietti, album e tante altre piccole cose che questa donna ha gelosamente custodito e conservato per tutta la vita. Mi è capitato spesso, da bambina, di curiosare tra vecchi album e all’interno di scatole piene di fotografie; quando le trovavo non potevo trattenermi dal chiedere subito ai miei nonni o ai miei genitori di raccontarmi di quelle persone in bianco e nero, di svelarne l’identità. Attraverso queste fotografie e queste storie incerte, queste vite dai contorni labili, ho avuto la possibilità di fissare nella mia memoria dei volti di persone altrimenti sconosciute, e di trovare anche per loro uno spazio preciso nei miei ricordi.
Tramite il disegno ho tentato quindi di materializzare questo spazio, di trasformare queste storie incomplete in qualcosa di fisico, di oggettuale. Ogni foto si sta trasformando in un disegno e le fotografie sono molte, non sono arrivata nemmeno a metà valigetta. Poi ho intenzione di occuparmi di altri album e di altri oggetti; è una continua ricerca.

Come ti rapporti con la città in cui vivi?

Da qualche mese sono tornata a Rieti, la mia città natale, per frequentare un Corso di Alta Formazione per Curatori allo IED di Roma.
Da una parte questo spostamento mi ha permesso di riappropriarmi del mio studio, di trascorrere più tempo a contatto con le cose che poi compongono la mia ricerca: le persone, i luoghi, gli oggetti che mi raccontano di storie e vite passate.
Ho potuto disegnare, passare molte ore a guardare vecchie foto e dedicarmi ai miei lavori. Ho prodotto moltissimo in questi ultimi mesi e credo quindi che questo ritorno abbia dato i suoi frutti.

Purtroppo, dall’altro lato, la realtà di Rieti per me è problematica. Per quanto riguarda l’Arte e le iniziative culturali in generale, ce ne sono pochissime, e quando riescono a nascere faticano comunque a tenersi in vita. Purtroppo è una piccola città che difficilmente si apre al confronto e che è totalmente refrattaria a ogni tipo di autocritica. Credo però che ci siano delle persone valide che possono fare la differenza e aiutare questo posto a uscire dallo stato di arretratezza culturale in cui si trova.

Alessandra Cecchini
Settembre ’93 – carboncino su carta giapponese, 2016 – courtesy l’artista

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?

È un po’ come un vecchio pazzo pieno di soldi dal quale dipendiamo tutti, riservandoci però il diritto di parlarne male.

Che domanda vorresti che ti facessi?

Vorrei che mi chiedessi di parlarti un po’ di me attraverso un lavoro, che è l’unico vero autoritratto che io abbia mai realizzato: Settembre ’93. È un lavoro che parte da una fotografia di quando ero bambina. La didascalia dice “SET ‘93” e io provo a ricordare questo tempo lontano senza riuscirci. Eppure quella foto è quella che meglio mi identifica, quella di cui sono più gelosa, quella nella quale ritrovo un’espressione che fa parte anche di altre giornate, di altri mesi, di anni più recenti.
Ossessionata da questa foto, da sempre sentita come particolarmente vicina, somigliante, inizio a lavorarci con il mezzo che più mi appartiene e quindi disegno.

Disegno, cancello, ridisegno.

Tento di ridare vita a quel ricordo, di appropriarmene attraverso una nuova immagine, un nuovo oggetto che si disfa in continuazione davanti ai miei occhi.
Il ricordo mi sfugge proprio mentre cerco di ricostruirlo, di ricostruirmi.
Mi accorgo del curioso particolare all’angolo, di quella piccola scritta, di quell’indicare un tempo preciso che preciso non è; settembre novantatré è infatti una data sbagliata, fuorviante, perché parla di un tempo successivo alla foto, il tempo della stampa, della materializzazione dell’oggetto e quindi del ricordo. E altrettanto sbagliata è l’immagine che io tento di riformulare in continuazione e che si sottrae, e non può che presentarsi quindi così com’è: stratificata, scomposta, sfocata. Inchiodata al muro per metà e per metà libera.

www.alessandracecchini.wixsite.com

Immagine di copertina: Alessandra Cecchini – self portrait, 2017 – courtesy l’artista


Intervista a cura di Federica Fiumelli per FormeUniche