Gioia Di Girolamo nasce nel 1984 e dopo aver concluso il suo percorso di studi presso lo IED di Milano vive e lavora a Pescara, dove gestisce, insieme a Maurizio Vicerè, Matteo Liberi e Ivan Divanto, Ultrastudio, spazio artistico indipendente sorto dalla ristrutturazione di un ex capannone industriale e orientato in direzione della più attuale ricerca estetica sul piano internazionale. Post Human senza esserlo, la sua ricerca estetica la porta a indagare il concetto di soglia, evidenziando quel limite che interagisce, vive e si confonde fra epidermide umana e superficie digitale, fra delicatezze tattili e materiali da tecnologia calda.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Difficile dare una definizione temporale definita. Chi lo decide? Quello che posso dire è che da tutta la vita non ho desiderato altro che fare questo, lavorato in questa direzione seguendo il mio sentiero personale fatto di esperienze eterogenee. Questo grazie anche all’ambiente famigliare in cui sono cresciuta, culturalmente attento a ogni forma d’arte. Ciò che è sicuramente cambiato nel tempo è il mio approccio. Convivo con il mio lavoro come una seconda entità, imparando a comunicare con esso e a dargli Voce. Ogni volta è una sfida e credo sarà così per tutta la vita. Inizialmente mi chiudevo in restrizioni di genere, un genere che mi definisse come artista.
Mi rendevo conto però che questo mi soffocava. Solo nel momento in cui ho infranto queste barriere e mi sono messa in gioco ho finalmente potuto dare respiro all’opera. So che può essere vista come una mossa rischiosa, ma se ho sempre pensato che il “lavoro dell’artista” fosse il più bello del mondo e ho sempre desiderato esserlo è proprio perché ritengo che debba renderti libero, libero di essere te stesso rispettandone la sacralità eterna. Ho capito che diversamente non avrebbe avuto senso per me perseguire questa strada.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
L’essere umano e la sua identità in rapporto al tempo e allo spazio. Mi piacciono molto i contrasti e in questo momento mi sto interrogando sull’identità umana nell’era della digitalizzazione analizzando gli aspetti “carnali” e quelli “eterei”. Mi affascina l’idea che l’ uomo, attraverso la macchina, possa sperare nel raggiungimento di una sorta di trascendenza. Fino a che punto è disposto a spingersi? Dove sono i confini? Il corpo è un limite o un complice?
Tendenzialmente ogni lavoro ha una sua identità e si concentra su di un aspetto diverso. Ad esempio l’ultimo, Last Season, è un’installazione ambientale che ho presentato in occasione del mio ultimo group show, And if I left off dreaming about you? curato da Like a Little Disaster.
Last Season è una riflessione sulla possibilità che abbiamo oggi di rivestire identità infinite grazie al web. Scegliere di essere tutti o nessuno. Ho preso ispirazione dalla muta degli animali e ricreato un luogo non-luogo, una sorta di fusione tra una dimensione inesistente e un terracquario digitale.
Prossimo programma: passare un’estate produttiva piena di lavoro, ricerca, acqua, vento e pelle d’oca.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Non molto tempo fa avete intervistato il mio collega e amico Maurizio Viceré (Vice) che vi ha già parlato di ULTRASTUDIO. Amo la mia città e questa terra, umanamente ti da molto, ma ti dico la verità, se non fosse per i diversi viaggi che ho la fortuna di fare (anche se non sono mai abbastanza) e il progetto che portiamo avanti insieme con lui, Ivan Divanto e Matteo Liberi, sicuramente sarebbe molto più dura di quello che è. Non so se sarei ancora qui. Ho studiato a Milano, città che amo visceralmente e al mio rientro a Pescara volevo contribuire in qualche modo.
ULTRASTUDIO ha dato un senso a tutto. Abbiamo deciso di essere noi a portare un pezzo di mondo qui e non il contrario.
Non ti nego però che egoisticamente i momenti più belli sono quelli in cui godiamo della compagnia degli artisti che ospitiamo. Ossigeno puro per le nostre menti. Quando sono tra quelle pareti o a costruire insieme progetti mi rigenero e sento di poter essere ovunque.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Ecco il domandone finale… non mi sono mai soffermata eccessivamente su questo, preferisco concentrarmi sul fare la mia parte al meglio. In ogni caso, credo di vederlo un po’ come tutte le istituzioni. Ce ne sono di migliori e di peggiori, possono far emergere il meglio o il peggio da un essere umano, sta poi all’intelligenza del singolo sapersi confrontare con queste.
Il confronto è sempre stimolante se vissuto con equilibrio. Ho imparato che solo guardando l’autorità dritta negli occhi, con rispetto per il ruolo che riveste ma mai essendone succube, puoi assicurare la qualità e lo spessore di ciò che hai da dire. Ciò che vuoi essere sei tu a deciderlo.
Che domanda vorresti ti facessi?
Vodka?
Intervista a cura di Marco Roberto Marelli per FormeUniche