Si intitola Family matters l’ambizioso progetto ideato da Filippo Marzocchi e Mattia Pajè. Otto mostre, allestite in trenta giorni, da un folto gruppo di artisti e curatori; un’impresa apparentemente folle, ma che, al contrario, è stata ben orchestrata, tanto da narrare un ottimo spaccato delle ricerche artistiche sorte in territorio bolognese negli ultimi anni.
La rassegna ha visto succedersi: Irene Fenara, Giuseppe De Mattia, Marco Casella, Gianfranco Mazza, Mimì Enna, Giacomo Giacomo, Marcello Tedesco, Luca Bernardello, Paolo Bufalini e Filippo Cecconi. Un gruppo eterogeneo di giovani, nati tutti nel periodo di massima diffusione della televisione, quando internet stava per trasformare irrimediabilmente ogni nostro approccio alla realtà. Il titolo della rassegna evoca infatti la nota serie televisiva americana, tradotta in italiano in Otto sotto un tetto, riprendendone l’estemporaneità, la serialità degli episodi e il carattere familiare ambientato in un continuo crocevia di relazioni.
Vivere un territorio geografico oggi significa viverlo in collegamento simultaneo con tutto ciò che accade nel resto del pianeta. Le scuole regionali a cui la storia dell’arte ci ha abituato sono state polverizzate dalla moltiplicazione di spunti iconografici, oggi fruibili incessantemente, grazie alle interconnessioni che costituiscono il network alimentato da internet, per utilizzare le parole di Manuel Castells. La trasmissione istantanea di immagini – tanto nei social quanto nei canali d’informazione – oltre ad aver reso possibile un’incontrollabile serie di stimoli e suggestioni, ha annullato in molti casi la necessità di un titolo per l’opera, in favore della trasmissione di sole immagini di insieme, tese a restituire una nuova idea dello stesso oggetto artistico. Family matters presenta una nuova generazione nata in seno alla società degli schermi, una schiera di giovani artisti che hanno completamente assorbito alcuni concetti chiave del secolo scorso come riproducibilità e rimediazione, avviando nuove e ancor imprevedibili strade di ricerca artistica.

Per la mostra inaugurale Irene Fenara produce quattro brevi video a partire da registrazioni fatte da telecamere di videosorveglianza. Le sequenze sono sottratte dall’artista in seguito a delle pacifiche intromissioni via internet in reti a circuito chiuso; i brevi clip così ottenuti sono proiettati in loop nelle pareti del luogo espositivo, immergendo l’osservatore in un ambiente simulativo, una dimensione cosmica e dilatata, nella quale è creato un valore estetico a partire da riprese con ben altra funzione. In una delle sequenze ci è lasciato intuire, per pochi secondi, quale sia l’origine del segnale, innescando un rapporto di scambio nei due sensi in cui l’osservatore non solo è osservato, ma riveste la posizione disorientante di inavvertibile infiltrato.
(Irene Fenara, MEGAGALATTICO)
Giuseppe De Mattia realizza la sua mostra proponendo all’osservatore opere di diversa natura: fotografie, disegni e stampe indicano sui vari supporti oggetti e utensili posti in posizioni solenni, quasi per esaltarne le splendide qualità formali, evocandone una certa sacralità. Visioni urbane e archeologiche si mescolano a oggetti mitici nelle immagini e le varie tecniche si confondono tra loro, mostrandoci una nuova realtà necessariamente ri-mediata, sia da un punto di vista tecnico, sia percettivo.
(Giuseppe De Mattia, Disegni e mezzi disegni, a carbone, testo di Antonio Grulli)
Del resto anche Marco Casella esprime un atteggiamento simulativo, riflettendo piuttosto sulla moltiplicazione e sullo statuto iconico delle immagini. Ogni tipo di schermo ci ha ormai abituato a una realtà visivamente più definita di quella che viviamo, soddisfacendo i nostri sensi con mere illusioni. Ed è sfruttando l’alta definizione che Casella costruisce le sue immagini; egli simula delle aperture nei muri attraverso cui è possibile vedere il cielo, contrapponendo il rigore dell’alta definizione a un ambiente confuso e colmo di volantini, sottolineando diversi livelli di percezione e rapporto con la realtà.
(Marco Casella, Showroom, testo di Claudia Gangemi)
Gianfranco Mazza realizza una mostra asciutta, composta, dove la grande pulizia dello spazio è esattamente in linea con il rigore geometrico delle figure rappresentate. L’utilizzo di intrecci ortogonali è rivisto e schiacciato sulla superficie, illudendo e confondendo l’occhio grazie a una rappresentazione anamorfica. In Sucre è avanzata una riflessione sulle forme concrete; la funzionalità del design è intrecciata dall’artista con le possibilità astrattive dei solidi, portandolo a concepire una serie modulare di sedute dai toni espressamente minimalisti.
(Gianfranco Mazza, Sucre)

Mimì Enna presenta la documentazione di una serie di relazioni avvenute nel corso di un periodo trascorso all’estero, nei Paesi Bassi. L’artista espone degli scatti fotografici affiancati da oggetti che ritroviamo nelle immagini stesse, portando alla mente un’osservazione di Roland Barthes secondo cui la fotografia non ha solo il potere di riportare oggetti ma interi contesti. Nel rispetto di un atteggiamento low-fi, intimo e personale, sono realizzate anche le due installazioni che coinvolgono attivamente l’osservatore in uno spazio relazionale, grazie all’ausilio di un lettore mp3 e di un pc con il quale è possibile interagire.
(Mimì Enna, 30th January 2017-in progress)
Giacomo Giacomo dà sfogo a una mostra discount, estremamente low-fi, in cui le opere sono concepite come oggetti ed elementi riterritorializzati. AUMAI si appropria delle possibilità estetiche e della molteplicità di significati che l’oggetto possiede nell’epoca della completa delocalizzazione della produzione industriale e della larga apertura dei mercati. Nonostante gli oggetti venduti dal grande magazzino cinese facciano parte della nostra cultura e quotidianità, essi risultano ai nostri occhi spesso perturbanti dando luogo ad una estetica autonoma, ibrida. Visioni distorte si sovrappongono generando un ambiente colmo di errori e fraintendimenti; una generale semplificazione e superficialità è percepibile sia attraverso gli oggetti esposti, sia nell’insolito “foglio di sala”, anch’esso trasformato in opera d’arte.
(Giacomo Giacomo, AUMAI, testo di /77)
In modo ben differente Marcello Tedesco utilizza oggetti ad alta definizione, impiegando pelli animali e materiali plastici, per dare sfogo ad ardite e instabili composizioni formali. Gli equilibri precari, l’associazionismo arbitrario, rievocano una dimensione simulativa della realtà, cercando di fissare fenomeni nel momento in cui rompono con le leggi della gravità e della fisica. L’artista mette in pausa un processo, fissa un’istantanea riportando alla mente il pensiero di Henri Cartier-Bresson, utilizzando però gli oggetti come sostituti del mezzo fotografico.
(Marcello Tedesco, Aufblühen, a cura di Rossella Moratto)
Super Golosi è il frutto di un lavoro congiunto operato da Luca Bernardello, Paolo Bufalini e Filippo Cecconi, i quali si alternano a coppie per la realizzazione dei lavori esposti. Il risultato è un intreccio di idee in cui la natura eterogenea dei linguaggi richiede una lettura tutta mentale, una riflessione tautologica per certi versi, non più rivolta alla sola arte – come voleva Kosuth – ma spostando l’attenzione verso il gusto. Danno così luogo a opere che oscillano tra l’alta e la bassa qualità dei materiali e dei mezzi impiegati, mostrando l’urgenza di nuovi criteri di giudizio.
(Paolo Bufalini, Luca Bernardello, Filippo Cecconi, Super Golosi)
Davide Da Pieve
FAMILY MATTERS
a cura di Mattia Pajè e Filippo Marzocchi
04 maggio – 04 giugno 2017
GELATERIA SOGNI DI GHIACCIO – via Tanari Vecchia, 5/a – Bologna
www.gelateriasognidighiaccio.com
Immagine di copertina: Family Matters – Marco Casella, Showroom – exhibition view at Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna, 2017 – courtesy Gelateria Sogni di Ghiaccio