Riprende il ciclo di interviste realizzate in occasione del progetto curatoriale Emporio Centrale. Oggi incontriamo Dario Picariello, artista coinvolto dal curatore Stefano Volpato per l’operazione site-specific E dice che nemmeno la vita è mia, in corso fino al 15 luglio 2021 presso La Redazione di Forme Uniche a Milano. Nel secondo episodio lo spazio espositivo ha una nuova consapevolezza grazie ai preziosi e inediti lavori dell’artista avellinese, che ha avuto la forza di rinnovare, rileggere e attualizzare, attraverso una visione ampia e multidisciplinare, la complessità dei temi sociali, culturali e storici legati al mezzogiorno d’Italia.
Scrive il curatore nel testo critico: “In occasione del secondo capitolo di Emporio Centrale, Picariello presenta due lavori che continuano la serie dei Cicli, prendendo spunto da ulteriori topoi del repertorio dei canti tradizionali – in questo caso i riti nuziali con l’opera (C.3) Non voglio cantare le mie pene al sole e l’infanzia, con la nuova produzione (C.1) Ninnanannaninnanonna. Anche in questo caso nella pratica dell’artista, la cui ricerca parte da una formazione fotografica per unirsi a un approccio antropologico, si conferma l’interesse per il “basso”, il materiale e il corporeo in contesti vernacolari. Tuttavia appare altrettanto evidente come alla durezza, alla drammaticità, alla ferocia disperata di cui si fanno carico i soggetti e i versi pazientemente ricamati dall’artista sul tessuto non corrisponda la piacevolezza decorativa, la compostezza da mise en place del giorno di festa cui le immagini giungono dopo una elaborata metamorfosi. Le immagini ci mettono in contatto con un passato che non c’è più e questo implica delle conseguenze per le nostre capacità empatiche. Esse dominano il nostro rapporto con la cronaca: percepiamo la presenza degli altri e la concretezza del loro dolore o, piuttosto, la netta separazione tra il qui e ora del corpo e la sua rappresentazione che potenzia la rimozione? É una domanda che accomuna questi lavori di Picariello e il luogo, del tutto particolare, che in questa occasione li ospita: la redazione di un giornale”.
Leggendo i tuoi lavori non posso fare a meno di pensare alle opere di De Martino per il Salento e quelle di Carpitella e Lomax per la Sicilia, ricerche che hanno sempre avuto grande rilevanza all’interno della questione antropologica e non solo. Come nascono i lavori in mostra e su quali fonti documentarie hai studiato, oltre al testo di Lionardo Vigo dal quale trai ispirazione per il titolo di questo nuovo capitolo?
Vivere in una società come la nostra, “plurale” e stratificata, innesca inevitabilmente una riflessione su quelle che sono le peculiarità di ogni luogo, gruppo o contesto sociale. La questione meridionale è, almeno nell’immaginario collettivo, determinata da specificità esclusivamente antropologiche che spesso escludono quelle storiche o contemporanee. Il primo strumento di ricerca è da individuare nel vissuto personale. La mia “formazione” parte da un contesto permeato di ritualità e credenze: questo ha indubbiamente contaminato il terreno da cui parte la mia ricerca artistica. A partire dal 2020 ho cominciato a ragionare su un ciclo di lavori che affrontano questioni legate all’esistenza umana in funzione del rapporto tra il primo nucleo familiare, l’amore e il lavoro. Sono partito da un testo, I canti popolari arbëreshë e la tradizione dei canti popolari italiani di Antonia Marchianò, che cerca di raggruppare in diversi cicli i canti popolari del sud Italia, a seconda della funzione e della necessità per cui il canto è stato composto. Nel caso specifico, nella Redazione di Forme Uniche sono stati presentati due Cicli, il terzo Non voglio dire le mie pene al sole...(2020) e il primo Ninnanannaninnanonna (2021).
Ti sei formato al Master in Photography and Visual Design presso NABA – Milano e hai conseguito la laurea in Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino. Molti considerano la fotografia e l’arte contemporanea come due mondi separati, secondo te, qual è la natura di questo rapporto?
Il mondo delle immagini negli ultimi anni è esploso prepotentemente, diventando uno strumento che va ben oltre la “visualizzazione” di un contenuto. Se pensiamo alla storia della fotografia – relativamente recente, se comparata agli altri media dell’arte – ci rendiamo conto di come essa sia stata spesso utilizzata in funzione della sua capacità di mostrare o di-mostrare una realtà relativamente chiusa e oggettiva, un contenitore di verità. Funzione che, calata nella pratica artistica, mal si presta all’idea di fruire dell’arte, soprattutto quella contemporanea, come qualcosa di vicino alla verità assoluta, circoscrivibile e capace di offrire soluzioni immediate. Una delle questioni legate alla fotografia è che, almeno fino a qualche anno fa, essa non potesse essere scissa dalla sua tecnica. Paradossalmente alcune tra le esperienze più interessanti di ricerca che hanno prodotto opere realizzate attraverso il medium fotografico, a mio parere, sono quelle realizzate da artisti che hanno superato il limite del mezzo tecnologico che la fotografia sembra dover necessariamente avere, ricollocando la tecnica all’interno di un ventaglio di altre tecniche. Quello che probabilmente genera ancora dubbi rispetto a questo approccio alla pratica artistica è dato dal fatto che oggi più che mai la fotografia è entrata a pieno regime all’interno di un sistema di linguaggi comuni. Se pensiamo a come tutti noi ogni giorno utilizziamo le immagini per trasferire informazioni ad altre persone – sostituendo di fatto la parola – rendiamo inconsapevolmente più difficile generare, nella mentalità comune, uno scarto tra le pratiche.
Quali sono le fasi che caratterizzano la tua ricerca fino alla formalizzazione completa dell’opera?
Quello che in questo momento trovo particolarmente interessante è proprio il gap che si è creato tra le immagini all’interno del sistema. Queste ultime sono diventate “anche” veicolo di informazione e, muovendosi con più velocità, hanno modificato la loro funzione estetica, acquisendone una nuova. Il mio lavoro è orientato proprio a generare un’interruzione all’interno di questo flusso di informazioni. Ed è in questo contesto che, partendo da un archivio di immagini d’interesse, creo un cortocircuito tra la fotografia digitale e il display che dovrebbe leggerla. Eliminando alcuni dati, il sistema non può far altro che generare un glitch o errore, un’immagine incontrollata, ottenuta dal riposizionamento e l’interpolazione di dati parziali. Quello che mi interessa è poi sovrapporre i livelli ottenuti da immagini di partenza differenti in una pratica quasi rituale, stampando le fotografie analogicamente su tessuto attraverso acidi, cucendo frasi con strisce di fotografie, creando installazioni utilizzando stativi da set fotografici. Il tutto crea un rapporto con il fruitore che non è finalizzato a porlo di fronte a un’immagine per farlo entrare in un mondo; al contrario lo si vuole coinvolgere in un mondo modellato intorno a lui mediante la riproposizione di un set che può fisicamente attraversare.
In questo periodo di post-pandemia il mondo dell’arte è pronto a mettere in discussione il proprio sistema o continuerà a trincerarsi dietro le sue sovrastrutture?
Al momento credo sia difficile avere una reale proiezione futura della situazione post-pandemica, considerata l’attuale precarietà del periodo. Quello che ho visto è che, a seguito di un’interruzione inevitabile, parte dei sistemi hanno cercato di ritrovare un equilibrio, in alcuni casi senza modificare l’approccio ma soltanto il modus operandi. Quel che però merita interesse è che, mentre si è compiuta un’operazione di trasposizione di tutto il sistema nell’ottica digitale, in qualche caso non necessaria, molti artisti hanno continuato a lavorare all’interno dei loro studi con un approccio al lavoro svincolato dalla velocità pre-pandemica. Credo che, nonostante tutto, questa possa essere un’occasione utile per rivalutare i tempi con cui relazionarci alla pratica di produzione e fruizione dell’opera.
Puoi anticipare qualcosa sui tuoi prossimi progetti?
Sarà un autunno interessante! Al momento mi sto concentrando sulla prosecuzione di questo grande progetto legato ai Canti popolari. Non mancherà presto occasione per riflettere sui lavori futuri.
A cura di Giuseppe Amedeo Arnesano
Dario Picariello
E dice che nemmeno la vita è mia
a cura di Stefano Volpato
15 giugno – 15 luglio 2021
La Redazione – Via Bronzetti 8, Milano
Visita su appuntamento in base alle disposizioni governative, fruibile in formato digitale e stampabile sul sito di Forme Uniche.
www.formeuniche.org/emporio-centrale/
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Emporio Centrale, E dice che nemmeno la vita è mia | Dario Picariello – Exhibition view, La Redazione, Milano, 2021 – Courtesy l’artista e Forme Uniche