L’organismo e la sintesi: le simbiosi di Francesco Pacelli

Non tutti gli artisti sono uguali, alcuni sanno di esserlo e si buttano a testa bassa, altri preferiscono, nonostante la loro vocazione, percorrere delle strade più sicure. Capita a molti di allontanarsi verso mestieri più prudenti, ma come il marinaio sogna sempre il mare, alcuni artisti, a volte, ritornano. Anche se per alcuni il termine avanguardia è un po’ vecchiotto, rimane indubbio che lei, proprio lei, stia ancora serpeggiando tra gli studi d’artista. L’arte di Francesco Pacelli cavalca una sfumatura tra l’argilla e il poliuretano, abituato com’è all’ibridazione, sa come rendere armonici degli accostamenti apparentemente inconciliabili. Con Francesco si è parlato molto della difficile relazione tra manierismo e rinnovamento artistico e di come ogni artista debba trovare la sua sintesi tra i due. Se sei troppo da una parte, ti ritrovi a essere un artigiano da galleria; se sei troppo dall’altra, incompreso e dimenticato. Ma chi non è rimasto condizionato dalla stretta formazione del settore può trovare dello spazio di manovra: un posto, seppur immaginario, dove costruire. Francesco, come altri, per fortuna, è una forma mutata di artista. Le professioni che ha imparato, quando si è allontanato dalla sua vocazione iniziale, l’hanno ibridato con altri metodi, altri strumenti. Questo marinaio, una volta ritornato al mare, ha portato con sé questa esperienza anomala, che è poi diventata la sua firma.

Forse, la chiave per leggere la sua particolare produzione sta nei materiali. Provando a vedere attraverso i suoi occhi, appare più evidente la divisione del mondo in due categorie: ciò che ci è stato dato, il naturale, che ad alcuni può sembrare in lotta con ciò che invece ci siamo costruiti, l’artificio, ma non per Francesco.

[I materiali] Sono degli espedienti, utili a raccontare delle storie, di potenziale ibridazione evolutiva con uno scenario e uno sviluppo.

La costruzione di un’armonia tra il sintetico e il naturale più che uno spunto è una vera è propria vocazione. La prima non esisterebbe senza un’osservazione puntuale dell’altra. Incastrati come siamo in un loop chiuso tra i due, l’unico modo per progredire è la simbiosi.

In questo momento il fulcro della mia ricerca è la definizione di questa sorta di ecosistemi, per porre una domanda, quasi esistenziale, riguardo l’evoluzione potenziale della specie. La tecnologia diventa una parte fondamentale perché la vedo proprio come uno strumento capace di potenziare l’essere umano.

L’arte è un processo digestivo, chi la fa assimila delle informazioni per poi espellerle previa rielaborazione semiotica. La “dieta” di questo particolare artista consiste in un considerevole numero di paper scientifici spadellati insieme a testi che vanno dalle riflessioni evoluzionistiche al significato degli oggetti. Lo studio di una specie di meduse capace di tornare giovane, l’invenzione di un nuovo metodo in grado di riscrivere il DNA, una ricerca sull’empatia umana nei confronti dei robot, sono i retroscena che suggeriscono la sua produzione.

Sono elementi che potresti trovare in natura magari tra tremila anni. Potrebbe essere una potenziale esistenza parallela, una realtà alternativa. Mi piace molto lavorare su questo scenario immaginifico. Si tratta di attingere dalle sfere dell’immaginario collettivo, e da sfere dell’immaginario, invece, più scientifico, biologico, organico.



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Una sorta di futuro parallelo, slegato dalle regole del nostro presente, capace di ospitare creature evolute in modi apparentemente anomali, creato dall’artista al solo scopo di costruire un immaginario, artificialmente naturale, che è il suo lavoro. Alcune delle sue opere sono dei veri e propri animali, o meglio, degli aggregati organici. Delle forme evidentemente utili a qualcos’altro: hanno scaglie, artigli, occhi; sono sintesi, apparentemente rubate al loro strano e lontano ambiente, inserite in uno spazio bianco e capaci di raccontarci l’ecosistema immaginifico che le ha partorite. Organismi che contengono la dualità della produzione dell’artista: tanto organiche e vive all’apparenza, quanto artificiali nella loro costruzione materica.

Krubero l’ho preso da una delle grotte più profonde che si trova in Georgia, la grotta di Krubera. Quando vengono fatti questi ritrovamenti di specie biologiche, marine, in posti dove per milioni di anni non c’è stata la luce, si ha a che fare, ad esempio, con esseri che si sono sviluppati senza occhi, che posseggono parametri diversi e che si orientano attraverso altri sistemi. Ci sono dei pesci abissali totalmente rossi perché, nelle profondità in cui vivono, il rosso viene totalmente filtrato rendendoli invisibili ai predatori. In questo essere [Krubero], mi è piaciuto dare questo senso di “mutazione genetica”, contaminando il sintetico e l’organico. Sono tutte sintesi più o meno volontarie, a volte diventano dei passaggi istintivi.

Ibridazioni di questo tipo possono provocare quel senso di repulsione capace di infrangere l’apatia dello spettatore. Ben consapevole del tabù velato della modificazione artificiale della carne viva, Pacelli crea le sue opere innestandovi una punta di disgusto. Ma le opere vogliono andare oltre la repulsione, vogliono creare una nuova armonia visuale. Sembra che il mezzo artistico serva per costruire un nuovo legame tra la natura più celata, e quindi singolare, e quelle costruzioni culturali che la fanno apparire disgustosa. Il suggerimento è di accettare questa componente repulsiva, per scoprire nuovi sensi estetici che, una volta conosciuta la bizzarra evoluzione che li ha creati, possano essere considerati belli.

Tra il tossico e il terapeutico, alcuni dei lavori di Francesco sono fatti per esplorare le componenti più scomode della nostra percezione. Una lozione pensata per superare una fobia trova il suo contrasto con un organismo creato solamente per subire un atto sadico. Queste nuove svolte dichiarano gli intenti tanto dell’artista quanto dell’umanità come specie. Un atto dalle sfumature divine, capace tanto di curare quanto di rovinare, che la mano dell’artista si ritrova a compiere. L’atto sadico è l’ultimo venuto e negli oggetti che annichiliscono la rappresentazione della vita si ritrovano quei materiali spigolosi tipici del non-organico tecnologico, che opprime e al tempo stesso conserva, cristallizzando un’agonia. I tubi che danno vita alla creatura però, vanno in luoghi che il visitatore non può vedere.

La tecnologia, nel mio lavoro, mi piace farla anche scomparire, non esplicitare il macchinario. Deve essere uno strumento come il pennello, la matita. Sta nel processo e non nel fine.

L’atto di celare, se fatto bene, attrae. Anche se l’artista sembra voler lasciare dietro alla porta dello studio tutte quelle tecnologie che lo aiutano nella creazione delle sue opere, sa come renderle protagoniste attive della percezione delle sue opere. Attraverso dei suoni dietro a una porta luminosa oppure nella trama di una superficie, questa mano resa semi-invisibile, sembra tirare i fili delle creature che si muovono davanti allo spettatore.

Si ritorna a quegli strumenti che hanno creato le opere e che, alcune volte, continuano a dare loro vita anche nell’esposizione. Meccanismi imprescindibili per Francesco e per la nostra vita sinteticamente naturale con la quale dobbiamo continuamente fare pace e alla quale dobbiamo imparare ad adattarci ma che, una volta trovata la giusta sintesi, sa rinnovare la nostra natura.

A cura di Carlo Gambirasio


www.francescopacelli.com

Instagram: francesco__pacelli


Caption

Francesco Pacelli – Courtesy l’artista

The anachronism of the species makes us very fragile – Epoxy resin, plaster, fabric, acrylics pigments, cellulose, flexible led light – Courtesy l’artista, ph Michele Fanucci

Krubero – High temperature ceramics, 98x67x16cm – Courtesy l’artista, ph Michele Fanucci

Abisso Elastico – Installation wiew, spazio Current, 2019 – Courtesy l’artista, ph Michele Fanucci

Joru series (please stay here) – Silicone, tubes, electronic inflation system, 33x34x10cm approx. (except tubes), 2019 – Courtesy l’artista, ph Michele Fanucci