DAMP (2017) è un collettivo artistico la cui filosofia persegue la creazione di opere installative estremamente connesse ai luoghi prescelti, sempre provviste di una solida impronta concettuale. DAMP unisce la conoscenza tecnica e la preparazione intellettuale di quattro artisti campani – Luisa de Donato, Alessandro Armento, Viviana Marchiò e Adriano Ponte – sotto un’unica firma.
L’unione di quattro professionalitàeterogenee per la creazione di opere dalla firma comune èuna rinuncia all’autorialità ma dimostra anche una forte consapevolezza del gruppo nel mantenere l’equilibrio tra energie differenti. Potete raccontarci il modo in cui vi approcciate a un progetto artistico, le vostre dinamiche interne?
Ci riesce difficile rintracciare le dinamiche che ci portarono a presentarci attraverso una firma comune, almeno quanto individuare i nostri ruoli all’interno del gruppo. Forse perché accadde tutto in maniera molto spontanea, e forse perché non abbiamo mai sentito il bisogno di assegnarci dei ruoli. In un continuo processo di aggiustamento dei pesi per far sì che si annullino a vicenda, la vita del collettivo procede grazie all’apporto contingente o funzionale di tutti. Se è senz’altro vero che ogni processo creativo parte da una riflessione individuale, è altrettanto vero che ogni input, se immaginato per il collettivo, si plasma prevedendo l’incontro con le visioni di altre tre persone. Si potrebbe essere tentati a considerare tale dinamica come una necessità stilistica, ma a noi piace pensare al lavoro collettivo come un lichene: l’alga e il fungo svolgono compiti diversi, ma solo nell’ottica di un organismo unico.
Poi c’è la fase di condivisione: l’idea viene discussa, decostruita, modificata, spesso abbandonata per aggiungersi alla folta comunità di visioni che popola i desideri del collettivo. Come territorio neutro in cui far incontrare le nostre singolarità, abbiamo individuato lo spazio, reale e virtuale.
Negli elaborati artistici da voi prodotti, in questi anni di vita del collettivo, non primeggia nessuna tecnica in particolare, l’eterogeneitàdei componenti del DAMP si riflette nella vostra produzione. Questo aspetto èassai intrigante, ciononostante èben evidente un filo conduttore tra tutte le vostre opere installative. Qual èla vostra filosofia e i principi che perseguite?
Quando abbiamo composto l’acronimo che avrebbe poi rappresentato la nostra collaborazione non ci siamo soffermati sul significato inglese della parola ‘damp‘, umidità. Pura coincidenza che diventa traccia: se dovessimo individuare un movimento che ci piacerebbe assecondare, sarebbe proprio quello dei fluidi. Flettono, vuotano, smussano e ammorbidiscono. Cerchiamo di sottrarci a ogni tipo di affermazione nei nostri lavori, siamo affascinati dalla natura temporanea delle cose. Probabilmente, è per questo che guardiamo con interesse alla fisica, alla biologia e all’informatica, mondi di cui non abbiamo una conoscenza approfondita. Ma proprio il restare in superficie ci consente di creare delle fenditure tra i vari blocchi disciplinari per tentare di concatenare la dimensione concettuale a quella estetica.
Guardando la vostra produzione artistica si nota un’evoluzione sempre piùaperta verso l’esterno, caratteristica evidente negli ultimi progetti Oasi, Deriva e Hortus Conclusus. Potete spiegarci questo sguardo sempre più “ambientale”?
Un rinnovato interesse per la questione ambientale e la saturazione delle città fanno sì che i nostri progetti trovino spazio, perlopiù, in contesti rurali. Qui, il nostro approccio non è molto diverso da quello che utilizziamo altrove: cerchiamo comunque di perseguire un principio di non-imposizione e tentiamo di creare relazioni di tensione tra le geometrie preesistenti e quelle da noi elaborate. Non ci consideriamo un collettivo che “lavora con la natura”, innanzitutto perché vogliamo declinare la nostra ricerca con un ventaglio quanto più variegato di ambiti, e poi, semplicemente, riteniamo la contrapposizione naturale/artificiale un po’ forzata e, talvolta, persino fuorviante. Forse è per questo che l’unico esterno verso cui sentiamo realmente di rivolgere il nostro sguardo è l’altro-ove, illusorio e non esperibile.
Lo studio dei luoghi risulta fondamentale per voi; potete raccontarci di una località che ha particolarmente stimolato l’elaborazione di un’opera?
La chiesa del Monte dei Morti di Salerno. La struttura era stata da poco riaperta grazie a un progetto di riuso adattivo del collettivo Blam e, ovviamente, presentava tutti i problemi di un bene abbandonato per lunghi anni. L’ipotesi che si trattasse originariamente di un battistero e la presenza dell’ossario creavano una sorta di ciclo vitale all’interno della struttura; poi c’erano i residui dei passaggi e l’assenza, gli strati di polvere. Lavorare su suggestioni che rimandavano a concetti inafferrabili coinvolgendo persone che non erano mai entrate in quel luogo, ci fece giungere a una soluzione formale semplice: recipienti monocromi contenenti acqua. Il frammento e l’acqua sono ancora oggetto di approfondimento nella nostra ricerca.
Il periodo di chiusura fisica che stiamo vivendo sicuramente sconvolge le dinamiche abitudinarie private e lavorative. Tuttavia l’elaborazione mentale, che èfondamentale nella progettazione, puòessere ancora sviluppata. Quali sono i vostri prossimi progetti? Questa nuova condizione di vita vi ha suggestionato in quale modo?
Per quanto riguarda il nostro dialogo interno, non è cambiato molto. Viviamo in zone differenti della Campania, abbiamo spesso utilizzato la videoconferenza per confrontarci sui lavori; adesso è solo difficile realizzarli. Infatti, tutto ciò che avevamo in programma è rimandato a data da destinarsi, ci dedichiamo di più allo studio e alla progettazione. Forse perché stimolati dalla reclusione, stiamo lavorando molto sui concetti di spostamento, limite e vuoto, che sono al centro di un progetto pensato per lo Spazio Y di Roma. Per il momento siamo costretti ad abbandonare la relazione con lo spazio come l’abbiamo finora intesa, ma tendiamo a vedere questo ostacolo come una possibile apertura verso nuovi modi di intendere il fare artistico. L’instabilità del momento non ci spaventa: il concetto di crisi inteso come cambiamento è insito nelle nostre vite e l’avvenire non ci è mai apparso nitido.
A cura di Martina Campese
Instagram: damp.collective
Caption
DAMP, Oasi, 2019 – Oasi San Felice – Courtesy collettivo DAMP
DAMP, Hortus conclusus, 2019 – Palomonte – Courtesy collettivo DAMP, ph.La Balena
DAMP, Pixel, 2019 – Chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti, Salerno – Courtesy collettivo DAMP, ph. Carlo Oriente
DAMP, Approdi, 2018 – Courtesy collettivo DAMP
Ritratto collettivo DAMP – Courtesy collettivo DAMP, ph. Matteo Neri