Giuseppe De Mattia, nato a Bari nel 1980, vive e lavora a Bologna. Dopo aver abbandonato gli studi in urbanistica al Politecnico di Milano si laurea in DAMS Cinema presso l’Università di Bologna. Fotografia e video sono i punti di partenza del suo lavoro – spesso diretto a un’analisi di situazioni impreviste e al riuso di oggetti di scarto – che assume molteplici configurazioni installative, fino ai più recenti confronti con pittura e disegno.
Ha fondato il collettivo Casa a Mare (con Luca Coclite e Claudio Musso) e nel tempo ha collaborato con Spazio Labo’- Centro di fotografia di Bologna e sempre nella stessa città con Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia e con la Cineteca di Bologna.
Per inquadrare il tuo lavoro è inevitabile assumere la fotografia come punto di partenza, anche in relazione ai tuoi studi universitari. È un medium onnipresente nella tua produzione e si manifesta in modalità piuttosto varie, ad esempio come termine di confronto con altri mezzi espressivi, se si pensa al tuo recente interesse verso il disegno e la pittura. Niccolò Fano, tuo gallerista di Roma, in una recente intervista1 ha parlato in tal senso di “antifotografia”: come nasce il tuo rapporto con la fotografia e come si coniuga ad altri registri di segni?
In realtà io disegnavo e dipingevo già da molto piccolo. Ho avuto la fortuna di avere un insegnante di disegno alle scuole medie che mi spronava a farlo anche al di fuori delle ore scolastiche. In più, mio fratello maggiore, più grande di 10 anni, aveva interessi per l’arte contemporanea e contribuiva a una mia formazione precoce in questo senso. Fu lui a regalarmi la prima macchina fotografica e, nel 1997, mi portò a vedere la mia prima Biennale di Venezia. Ho sempre visto le due cose come collegate. La divisione fotografo-pittore è venuta dopo nella mia vita, e cerco di prenderne le distanze. Il rapporto con Niccolò mi ha dato consapevolezza in questo senso. Un artista nella sua ricerca può fare un po’ quel che vuole, seguendo però una linea coerente. Certo sviluppando delle abilità, ma nel mio caso anche con la voglia di esplorare delle disabilità. Poi hanno influito anche i miei studi di cinema e, prima, di urbanistica. A Milano, nei primi anni duemila, era operativo il collettivo di artisti, fotografi e architetti chiamato Multiplicity, sotto la guida di Stefano Boeri. Uno dei fotografi era Francesco Jodice, all’epoca mio docente, grazie al quale mi interessai alla fotografia come mezzo di documentazione e progettazione. Mi resi conto che non sarebbe stato l’unico mio medium dal momento in cui iniziai a imbrogliare rispetto alla fotografia: non avevo la pazienza dei tempi fotografici, non l’ho mai avuta. Non sapevo usare Photoshop, nel 1998 era ancora una novità, ma mi arrangiavo in altri modi, ancora con colla e pezzi di carta. Non ho mai davvero “rispettato” la fotografia, ma l’ho sempre collezionata. Parte del mio lavoro riguarda il riutilizzo di immagini preesistenti: la gente si libera facilmente di una buona fotografia, meno di un buon quadro.
Il tuo lavoro sulle immagini si lega a scelte di soggetti e materiali ben precisi. Hai il desiderio di rivalutare e risemantizzare oggetti poveri, che è anche il titolo di una tua serie del 2016: come si origina e si sviluppa questa tua “vocazione”?
Anche in questo caso, il mio percorso ha origini molto lontane nel tempo. Penso di aver avuto la migliore educazione della mia vita nel periodo preadolescenziale. Vengo da una famiglia di contadini e operai: gli oggetti con cui ho iniziato a giocare erano semplici, poveri. È stata un’infanzia che mi ha educato allo sguardo, all’osservazione di dettagli insignificanti. A casa dei miei nonni, dove stavo spesso, non c’erano libri d’arte, c’erano rotocalchi, i Grand hotel, dai cui fotoromanzi ho imparato l’immagine fotografica di finzione. Oggetti poveri, che è un lavoro fotografico sulle proporzioni, in realtà nasce da un ricordo. Ricordo di aver costruito degli zaini in carta mettendo assieme dei foglietti strappati dai Grand hotel di mia nonna. Oggetti poveri nasce davvero dal ricordo di quella voglia di ricostruire un oggetto visto in tv: vedevo le pubblicità degli zaini Invicta e li rifacevo, in proporzioni diverse, in carta. Trent’anni dopo ho ripreso il discorso. È un po’ il mio esercizio zen, ricreare cose che vedo in fotografie e poi mettere a confronto le due immagini. Il gioco sta qui. L’oggetto che costruisco è grande quanto l’oggetto fotografato? L’oggetto fotografato era esso stesso un modello o era l’oggetto vero? Quanto è vera la fotografia di un oggetto, se l’oggetto non è vero?
Un filo conduttore essenziale della tua ricerca è indubbiamente la riflessione sul tema della casualità. Come si situa la questione del caso nel tuo percorso creativo, anche in relazione a una tradizione del contemporaneo che si è molto nutrita di tale problema?
La
fotografia, per esempio, anche perché l’ho studiata a livello
tecnico, mi ha dato la possibilità di un controllo estremo del
risultato finale. Controllo che ho sempre rifiutato: sono stato
assistente per un lungo periodo di una fotografa che apprezzo molto,
Marina Ballo Charmet, le cui fotografie sembravano quasi generate da
una caduta della macchina fotografica, con un punto di ripresa molto
basso. Mi piaceva andare in quella direzione, anche se per lavoro
dovevo fare fotografie di tutt’altro genere. Quel mezzo, comunque,
mi garantiva controllo. Fuori da quel mezzo – il mio “conflitto”
con la fotografia si presentò più o meno dal 2014 al 2017 –
volevo affidare la mia ricerca a una perdita di controllo totale. Ma
alla fine si tratta pur sempre di una specie di controllo della
perdita di controllo. Un rapporto circolare tra controllo e casualità
è evidente, basta osservare ciò che ci circonda. Stampo quasi tutti
i miei lavori fotografici su carte da incisione, che potrebbero non
andare bene per la stampante. Infatti, spesso emergono degli errori
sui fogli, che io conservo. Sono processi casuali, di “inconscio
tecnologico”, per citare Vaccari, che è uno dei molti artisti, una
lunghissima schiera, che si sono occupati del problema del caso. Ma
non amo citazioni e omaggi: preferisco continuare una ricerca un po’
analfabeta.
Questo
rapporto duplice è diventato la base del mio lavoro. Sto preparando
una mostra a Barcellona, alla galleria di Juan Naranjo, il titolo è
Proceso y resultados,
che completerò tre giorni prima dell’opening utilizzando oggetti
sferici e striscianti che genereranno, casualmente ma con un
tentativo di controllo, disegni.
L’aspetto performativo è implicito nelle tue opere, anche se non si tratta di performance in senso stretto. Come ti poni in relazione a ciò?
Non mi definisco performer, ma l’aspetto performativo è centrale e si lega anch’esso ai ricordi: con Casa a Mare abbiamo reso performance il rito sacro e magico della salsa al pomodoro, quella che si faceva d’estate. Quando lo proponemmo alla Nowhere gallery di Milano fu qualcosa di estremamente potente. La performatività nel mio lavoro nasce ancora dall’osservazione della realtà e dall’infanzia: mia zia faceva la sarta e mio zio tramava reti per pescatori, ho interiorizzato questi gesti. Poi mi hanno colpito anche certe sculture mobili di Fabrizio Prevedello che lasciavano segni sul pavimento quando si spostavano e le performance di disegno di Riccardo Baruzzi.
Ingegno e Indipendenza è l’opera che hai esposto recentemente al MAMbo per la mostra That’s IT, curata da Lorenzo Balbi. Si tratta di una documentazione di performance eseguite in via dell’Indipendenza a Bologna. Ne emerge l’autoritratto comico di un artista accattone, dedito all’imbroglio, che inventa qualsiasi espediente per campare alla giornata. Mi pare una provocazione calzante.
Secondo me è stata un’opera presa un po’ sotto gamba perché, cosa voluta, non aveva nulla di vendibile. Alla fine della mostra ho regalato i pezzi esposti, e prima ancora li ho dichiarati privi di valore. Quando Lorenzo mi ha invitato mi ha chiesto un’opera che mi rappresentasse. Quello è il mio autoritratto: un periodo in cui la performance è stata il mio vivere quotidiano, cercando di arrangiarmi, e di proporre in vendita truffe, scopiazzamenti; che è, alla fine, ciò che gli artisti fanno tutti i giorni: si tratta solo di ammetterlo.
a cura di Enrico Camprini
Instagram: giuseppe_de_mattia
Caption
Giuseppe De Mattia – Courtesy l’artista, ph. Riccardo Baruzzi
Ingegno e Indipendenza, 2018 – Courtesy l’artista, ph. Carlo Favero
Oggetti Poveri, 2016 – Courtesy l’artista, no credit.
Arazzi Poveri, 2019 – Courtesy l’artista, ph. Carlo Favero