Uno dei tratti distintivi della nostra contemporaneità, sempre più smaterializzata e virtuale, è la programmatica rimozione della parte istintiva e ferina che accomuna gli esseri senzienti a vantaggio del presunto trionfo di un’efficienza chirurgica, percepita come valore assoluto e politicamente corretto. In realtà la corsa all’automazione e alla razionalizzazione dei processi produttivi, anziché generare nuovi modelli di convivenza sostenibili, ha approfondito la frattura tra l’essere umano e il suo habitat naturale, anestetizzando la sua capacità di comprensione e rispetto delle altre forme di vita con cui da sempre condivide il territorio. L’esasperazione dell’antropocentrismo induce a considerare l’altro come una risorsa funzionale alla sopravvivenza di un’unica specie, dimenticando e occultando la consapevolezza dell’atavica animalità che governa i nostri impulsi più impellenti. Si scopre così che la correttezza e la “pulizia”, ostentate dal progresso tecnologico, celano soltanto una delocalizzazione del dolore e un’ulteriore mortificazione della materia biologica, oggi totalmente deprivata della sua originaria sacralità.
Su queste tematiche verte fin dagli esordi la ricerca artistica di Chiara Lecca (1977, Modigliara), coinvolta quest’anno nella quinta edizione di ART CITY Bologna con una mostra personale che interagisce e si integra con le Collezioni Comunali d’Arte a Palzzo d’Accursio. A fior di pelle è un percorso di meraviglia e riscoperta che rilegge con sguardo critico e incantato la pervasiva quanto invisibile presenza della componente animale nella nostra quotidianità a partire proprio dalle sue radici storiche documentate nella raccolta museale. Se gli artisti del passato utilizzavano abitualmente materia di origine animale (ad esempio peli per costruire pennelli, secrezioni ghiandolari per la preparazione dei colori, uova come collanti e addensanti dei pigmenti), le opere di Lecca esibiscono code, zampe, orecchie e vesciche di bestie da allevamento manipolate e trasformate fino a mimetizzarsi con i materiali pregiati solitamente associati all’estetica del bello. Nel suo lavoro nulla è ciò che sembra e il perturbante si cela dietro l’apparenza degli oggetti più rassicuranti; come nelle antiche Vanitas, la funzione dell’arte è suscitare domande sull’esistenza quotidiana di cui prende le forme per trarne un insegnamento morale che mette in discussione le certezze prestabilite su cui troppo spesso la coscienza si assopisce.

Così Fake Marbles è una composizione, di 18 totem realizzati con vasi in ceramica, porcellana e vetro avvolti da vesciche animali, che sorge da un grande tassello ottagonale del pavimento in marmo: le crepe e le rughe della pelle simulano le venature e le trasparenze della preziosa roccia calcarea nobilitando l’ordinarietà delle suppellettili domestiche disposte a pila e rivelando l’insospettabile potenzialità estetica di ciò che solitamente si considera nient’altro che frattaglia. L’eleganza di queste sagome tornite ricorda la lussuosa maestosità delle urne cinerarie di qualche monumento sepolcrale anche se qui, beffardamente, i resti dell’estinto gregge di pecore sono il contenitore e non il contenuto da custodire.
Il destabilizzante cortocircuito tra bellezza e morte prosegue negli Still Life, installazioni in cui elementi d’arredo démodé, come tavoli e colonne di elaborata fattura, fungono da supporto per lussureggianti mazzi di fiori accuratamente disposti. L’opulenza barocca dell’insieme nasconde, però, l’ennesima illusione: avvicinandosi all’opera ci si accorge che il fogliame è di plastica e che i carnosi petali sono orecchie di coniglio tassidermizzate su cui si può anche individuare il tatuaggio identificativo dell’animale. Il rassicurante salotto borghese si trasforma quindi in un respingente accumulo di scarti organici che eccitano un’ambigua morbosità dello sguardo. La tensione aumenta con Masks, serie di campane e bolle di vetro contenenti lembi di pelle di cinghiale conciata a cui l’artista restituisce tridimensionalità e presenza ripristinandone metaforicamente la testa.

La sconvolgente wunderkammern architettata da Chiara Lecca non vuole istigare una critica politica allo sfruttamento della natura da parte dell’uomo ma rendere lampante come oggi, per noi, l’animale sia diventato un’idea quasi astratta nonostante sia abitudine comune mangiarlo, indossarlo o considerarlo un compagno d’appartamento. La sua pratica di riuso e risignificazione degli scarti biologici dei processi produttivi della società industrializzata vuole invece restituire dignità e vita a frammenti inerti ipotizzando, al tempo stesso, una nuova e labile armonia tra l’uomo e i cicli naturali che ne attuano l’esistenza a partire proprio dall’accettazione della sua inevitabile brevità. La provocatoria ambivalenza tra ostensione e occultamento che caratterizza i suoi lavori è quindi il mezzo più efficace e diretto per suscitare nello spettatore una partecipazione intima che lo induca a ricongiungersi con la sua più viscerale impulsività.
La mostra si conclude con Lapped Rocks, composizione di moduli di colore bianco opalescente che richiamano la decadenza di antiche rovine: in effetti si tratta di blocchi di mangimi minerali per uso alimentare e zootecnico che le pecore nella stalla hanno leccato erodendone l’integrità e generando suggestivi minareti e stalagmiti. In questo caso l’animale non è più pietosa spoglia o frammento prelevato e riutilizzato ma complice creativo dell’operazione di spiazzamento con cui l’artista mette in dubbio l’irreversibilità di una realtà gestita, ordinata e controllata unicamente dall’uomo.
Emanuela Zanon
CHIARA LECCA
A FIOR DI PELLE
a cura di Sabrina Samorì e Silvia Battistini
20 gennaio – 19 marzo 2017
COLLEZIONI COMUNALI D’ARTE PALAZZO D’ACCURSIO – Piazza Maggiore, 6 – Bologna
Immagine di copertina: Golden Still Life – 2016, tassidermia, sterco, PVC, vetro, metallo, tavolo in legno, cm 200 x 180 x 120 – courtesy Museum Schloss Moyland, Bedburg Hau (D) e Galleria Fumagalli, Milano – ph Olimpia Lalli