Alla Temple University di Roma ha inaugurato il 25 settembre la collettiva Assurdità contemporanea, brillante sintesi del lavoro portato avanti durante questi due anni di attività dagli artisti di Spazio In Situ, sempre affiancati nella curatela da Porter Ducrist; la mostra, nata dall’ idea delle curatrici Tiziana Musi e Shara Wasserman, è frutto di una riflessione da loro avviata anni fa avente come oggetto la natura stessa degli spazi condivisi da artisti.
“Se si provasse a rinchiudere sette artisti in una gabbia come dei ratti da laboratorio, per osservare come reagiscono tra di loro e come le loro produzioni si contaminano, si potrebbero percepire delle preoccupazioni comuni. […]”; con questa considerazione si apre il comunicato stampa della mostra; alcune parole chiave come “produzione”, “contaminazione”, “gabbia” ci portano a riflettere su due macrotemi che sembrano attraversare tutta la mostra: il tempo e lo spazo.
Il tempo è quello della creazione, che in un luogo condiviso, comporta l’inevitabile contaminazione reciproca del lavoro di ognuno e, allo stesso tempo, la necessaria differenza, lo scarto sostanziale, tra una poetica e l’altra.
Entrando nella prima sala, ci si trova subito di fronte a una quadreria che sembra fare il verso a qualcosa di passato, demodé, che viene decostruito, rifiutato, ricostruito e infine ribaltato nella contemporaneità. Ogni cornice delimita uno spazio, che è poi lo spazio mentale, lo spazio del pensiero di ogni singolo artista; il limite è forte, netto e ci costringe a vedere ogni cosa come separata dall’altra, seppur prossima a livello di distanza. I lavori sono pitture, stampe, fotografie, disegni, tessiture: ognuno esprime la propria idea del mondo che lo circonda con mezzi diversi, in quella che apparentemente può sembrare un’accozzaglia di stili. Vi è poi l’elemento dello spazio che è qui vicinanza, prossimità; le cornici sono il confine tra un lavoro e l’altro, è la stessa cornice, poi, a unire, a tenere insieme, questo gruppo di identità eterogenee che sembra prossimo all’esplosione. Attraverso questa soluzione così rigorosa, geometrica, gli artisti danno un ordine al caos apparente che rivela pensieri e intenti comuni, ossessioni che attraversano la collettività.
Nella seconda sala, ogni identità viene presentata nella sua singolarità e abbiamo modo di vedere le installazioni create ex novo o riadattate in occasione dell’evento.
Handmade di Roberta Folliero (Roma, 1993) consiste in un telo di plastica ricamato con cura e appoggiato su una struttura in ferro; sono oggetti banali in situazioni del tutto straordinarie. Attraverso il ricamo, l’artista modifica la nostra percezione del telo che diventa improvvisamente visibile, evidente, bello. Una volta superata la meraviglia iniziale, ci si accorge della sottile nota malinconica che sta dietro alla bellezza: qual è il destino degli oggetti che il telo dovrebbe proteggere, e del telo stesso, se ribaltiamo la funzione di quest’ultimo? Se il telo si materializza grazie al ricamo, l’oggetto “da proteggere” è annientato dalla stravagante e inadeguata raffinatezza del velo e tutto appare sospeso in un tempo impossibile, ingannevole, assurdo.
Pause di Francesco Palluzzi (Tagliacozzo, 1987) ci racconta un altro tipo di assurdità. Anche qui il tempo è sospeso: da una parte una tela con la scritta “pause” appena percettibile nel sovrapporsi di tinte neutre, fa riferimento a un certo tipo di pittura di stampo minimalista e a un immaginario da lettore multimediale, in cui ciò che vediamo al di là della finestra della rappresentazione (che è poi lo spazio della finzione) è momentaneamente immobile; dall’altra un lungo rotolo di carta industriale – che nella forma richiama la classicità austera di una colonna – sulla superficie del quale trova posto un disegno accurato, accademico, virtuosistico di uno schieramento di topi congelati anch’essi in un tempo virtualmente immobile.
Le Grand Vert di Christophe Constantin (Montreux, 1987) è un omaggio – piuttosto ironico e dissacrante – al celebre Le Grand Verre di Marcel Duchamp; l’artista gioca in questo caso sulla vicinanza delle parole “verre” (vetro) e “vert” (verde). Da una parte la complessità dell’opera di Duchamp, dall’altra la sincera banalità dell’opera di Constantin, che celebra una delle personalità più criptiche di tutto il Novecento mettendoci di fronte a un’opera che sfugge da ogni possibilità di interpretazione e rivendica la disarmante banalità del suo essere oggetto.
Andrea Frosolini (Roma, 1993) con le sue installazioni ci pone dinanzi a degli oggetti parzialmente riconoscibili, prodotti di una decostruzione digitale che priva questi della loro funzione e della loro stessa consistenza. La smaterializzazione dell’oggetto, in una società votata al consumismo, è anche una riflessione sulla natura stessa dell’opera che si presenta come un mobile Ikea ed è affiancata da un catalogo accattivante quanto inutile, nel quale viene mercificato un oggetto non funzionale, ma esteticamente appagante. L’estetica di riferimento è quella pop, da grandi magazzini: oggetti tutti uguali che sono fatti per essere continuamente sostituiti.
Anche nei lavori di Marco De Rosa (Roma, 1991) l’ immaginario è quello da centro commerciale, ma l’artista ci trascina in un’altra direzione. Ci troviamo di fronte a una struttura composta nella quale tutto è calcolato al millimetro: un metro a nastro è bloccato al pavimento da un mattone. Eppure questa precisione, questa rigorosa attenzione con la quale gli oggetti sono posizionati, uno rispetto all’altro, è del tutto inutile. I materiali usati sono strumenti di misurazione, materiali da costruzione, cose che, insomma, fanno riferimento a un work in progress che si esaurisce senza produrre nulla.
Cyan di Elisa Selli (Roma, 1992) è un monocromo che, richiamando una lunga tradizione pittorica, è in realtà realizzato attraverso la pratica antica della tessitura. L’opera fa parte di una serie di lavori caratterizzati ognuno da un colore diverso; il codice CMYK (cyan, magenta, yellow, key black) della stampa in quadricromia. Ogni colore diviene l’elemento base di un linguaggio che può esistere solo nella compresenza di tutti gli elementi.
Con Specchio di Chiara Fantaccione (Terni, 1991) ci troviamo ancora una volta di fronte all’oggetto che viene però qui presentato al limite tra realtà e virtualità; l’oggetto-immagine viene capovolto nello spazio rendendo problematica la classificazione stessa del lavoro: si tratta di un video, di una foto o di un’installazione? E questa vertigine percettiva lascia noi stessi sospesi con un interrogativo perfettamente contemporaneo: cosa sto guardando?
Questa sensazione di smarrimento riguarda soprattutto lo spazio circostante; percorrendo le sale espositive della Temple, si ha come l’impressione di muoversi in un territorio ibrido, frutto di una sovrapposizione che vede come co-protagonista lo spazio della creazione, Spazio in Situ rivendica la sua presenza dietro a ogni installazione e – in modo ancor più forte – nella quadreria che accoglie lo spettatore all’ingresso.
Spazio proprio e spazio altrui, spazio condiviso. Artist run space. White Cube.
Sono molte le definizioni, spesso contraddittorie, che possono aiutarci a tracciare i contorni di questa realtà espositiva situata nella periferia della Capitale, che abbiamo modo di vedere momentaneamente trasferita nella cornice più mondana e rassicurante del Lungotevere.
Lo spazio è il protagonista della mostra; sembra essere, in sintesi, un invito a ragionare sull’essenza stessa degli Artist run space, senza ghettizzarli o relegarli fuori dai confini tradizionali, ma trattandoli per quello che sono: la manifestazione di un’urgenza, sottolineata dal proliferare di queste realtà sul territorio nazionale, la necessità di espandere i confini dello studio e delle gallerie, senza sacrificare l’identità di questi luoghi, ma permettendo una sana e proficua contaminazione.
Alessandra Cecchini
Christophe Constantin, Marco De Rosa, Chiara Fantaccione, Roberta Folliero, Andrea Frosolini, Francesco Palluzzi, Elisa Selli
Assurdità contemporanea
25 settembre -13 ottobre 2018
Gallery of art – Temple University Rome – Lungotevere Arnaldo da Brescia, 15 – Roma
Caption
Assurdità contemporanea – Exhibition view – Courtesy Gallery of art, Temple University Rome, ph Marco De Rosa