“People are always calling me a mirror and if a mirror looks into a mirror, what is there to see?”.
Andy Warhol (1928-1987), specchio del mondo che lo circondava e di se stesso, probabilmente avrebbe approvato la scelta di un’esposizione al Maraya, l’auditorium rivestito di specchi – il più grande del mondo di questo genere – nel cuore del deserto di AlUla, nell’Arabia Saudita nordoccidentale. Un miraggio, firmato dallo studio italiano di architettura Giò Forma, che accoglie festival ed eventi internazionali e ora la retrospettiva FAME: Andy Warhol in AlUla, aperta fino al 16 maggio 2023. La presenza di un artista anticonformista e trasgressivo come Warhol in un Paese ancora legato per molti aspetti a una cultura rispettosa delle tradizioni, può apparire una contraddizione, ma la macchina da guerra scatenata per la promozione e lo sviluppo della regione, sotto l’ala della Royal Commission for AlUla (nel contesto della “Kingdom of Saudia Arabia Vision 2030”, piano di sviluppo del Paese a 360 gradi, con trasformazioni radicali e investimenti milionari ) si è concentrata sulla produzione dell’artista e non sulla sua vita. “Arte e creatività giuocano un ruolo fondamentale nelle nostre iniziative e nell’esperienza da vivere ad AlUla”, spiega Nora Aldabal, Executive Director of Arts and Creative Industries della Royal Commission. “L’arte contemporanea è già approdata nella regione con Desert X (la manifestazione biennale in trasferta dalla California, ndr). All’orizzonte si profila anche l’apertura di un nuovo museo, in collaborazione con il Centre Pompidou parigino, i cui dettagli saranno rivelati a breve”. In realtà, alcune notizie sono già trapelate su Le Monde. Il quotidiano francese ha riportato che Francia e Arabia Saudita starebbero avviando un accordo per dare vita a “Perspective Galleries”, istituzione di cui sarebbe incaricata l’architetto libanese Lina Ghotmeh, mentre al Pompidou spetterebbe la strategia generale per cinque anni. Per questa prima mostra di Andy Warhol in Arabia Saudita, il Museo di Pittsburg, città natale dell’artista, ha scelto un’ampia selezione di opere, film e rari materiali d’archivio. Al centro dell’esposizione i cosiddetti “Screen Tests”, ritratti filmati in bianco e nero, della durata di tre minuti circa ciascuno, che Warhol realizzava in studio (la celebrata The Factory). Protagonisti centinaia di amici e personaggi – famosi e non – dell’avanguardia newyorkese degli anni tra il 1964 e il 1966, cui veniva chiesto di sedere in silenzio fissando l’obiettivo, senza fare nulla. Alcuni di loro, consumati dalla febbre di vivere e dalla droga, sarebbero scomparsi nel fiore degli anni e appaiono qui immortalati in un’eterna giovinezza. Come Edi Sedgwick, musa di Warhol, con la sua bellezza fragile e malinconica. “Quando iniziava a filmare, Warhol si allontanava e lasciava i suoi soggetti da soli davanti alla telecamera. Alcuni, come Lou Reed, sapevano come affrontarla, altri erano lasciati a confrontarsi con se stessi, come in uno specchio”, spiega il direttore del Museo di Pittsburg, Patrick Moore. Le colonne sonore che aleggiano nella sala sono quelle originali, composte appositamente per i film. Non mancano i lavori tradizionalmente associati a Warhol: i ritratti di celebrità e divi di Hollywood, vedette dello Studio 54 e delle interviste pubblicate sulla rivista “Interview”, da lui fondata. Miti che lo avevano affascinato sin dall’infanzia in Pennsyllvania, quando era ancora solo il figlio di immigrati cecoslovacchi (oggi Repubblica Slovacca). L’artista realizzava i ritratti da foto prese dai media e li stampava su seta con un metodo che permetteva di riprodurli con relativa facilità. Nella galleria sfilano, tra gli altri, Elizabeth Taylor, Jacqueline Bouvier Kennedy (ritratta prima dell’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy), Debby Harry, leader della band Blondie, il leggendario pugile Cassius Clay (Muhammad Ali), la cantautrice Dolly Parton. Compare anche l’intrigante autoritratto dell’artista, datato al 1976, quando aveva 48 anni. “È ancora il ragazzo di Pittsburg, anche se ha fatto una lunga strada, e in un certo modo si nasconde indossando le sue pazze parrucche. Una forma di timidezza nonostante l’apparenza e l’intensa vita pubblica”, spiega il direttore del museo Patrick Moore. Il percorso si chiude con l’installazione “Silver Clouds”, nuvole o meglio cuscini in materiale plastico metallizzato, gonfiate di elio in modo da fluttuare nell’ambiente, che erano state presentate per la prima volta nella galleria di Leo Castelli a New York, nel 1966.
La rassegna Fame, rientra nell’AlUla Arts Festival, dal tema “Living in Colour”, che vede alternarsi arte contemporanea, residenze d’artista, design e artigianato, mentre vengono gettate nello stesso tempo le basi per dedicare alla Land Art una zona di circa 65 chilometri quadrati. Wadi Alfann, letteralmente Valle delle Arti, ospiterà le opere site specific di cinque artisti già selezionati (altri seguiranno negli anni a venire). Abbiamo visitato in anteprima i luoghi dove saranno installate le opere, nella cornice delle formazioni rocciose di arenaria di per se stesse opere d’arte naturali. Qui, dal 2024, campeggeranno le opere di Agnes Denes (Ungheria, 1931), James Turrel (Usa, 1943), Manal AlDowayan (Arabia Saudita, 1973), Michael Heizer(Usa, 1944) e Ahmed Mater (Arabia Saudita, 1979). Della sua “Resonant Shell” (Ashab Al-Lal) si possono vedere maquette e disegni al AlJadidah Village, dove stanno fiorendo locali e caffè (in contrasto, a pochi passi, l’Old Town di AlUla, con le sue case di mattoni crudi e paglia, abbandonata negli anni Ottanta e ora in restauro). Wadi AlFann, nell’ottica degli organizzatori, sarà un nuovo potente punto di interesse, parte del programma “Journey Through Time” che prevede 15 nuove destinazioni entro il 2035, tra cui l’Art District e i Water Pavillons (oltra a Perspective Galleries). AlUla ha anche un altro asso nella manica, che la rende unica. Il sito Unesco di Hegra, detta anche Petra d’Arabia, avamposto meridionale del Regno dei Nabatei, crocevia di genti e culture sulla via dell’incenso. La rotta commerciale, tra le sabbie e oasi scomparse nel tempo, dagli attuali Oman e Yemen arrivava fino al Mediterraneo, con i preziosi carichi della resina di Boswellia, spezie e altri beni. Un sito archeologico di forte impatto, con oltre 100 tombe scavate nell’arenaria, a volte isolate nel deserto. Un’attrattiva (diventata quasi un brand, con un merchandising di livello esposto nello shop all’entrata del sito) giocata in parallelo con l’arte contemporanea e in generale la cultura, sulla quale l’Arabia Saudita punta molto per cercare di aprire il paese a un dialogo internazionale.
Come dimostra la prima Biennale di Arte Islamica, organizzata dalla Diriyah Foundation (fondata nel 2020 dal Ministero della Cultura saudita), aperta fino al 23 aprile al Western Hajj Terminal dell’Aeroporto Internazionale King Abdulaziz di Jeddah, città portuale affacciata sul Mar Rosso. Un’area di migliaia di metri quadrati, che sfrutta in parte le strutture (“vele” in tessuto e pali metallici) nel frattempo dismesse a favore del rinnovato aeroporto internazionale, realizzate dallo studio di architettura americano SOM (Skidmore Owing & Merrils), dove transitavano i pellegrini diretti alla Mecca. I nuovi padiglioni ed edifici sono stati invece realizzati dagli studi italiani Gio Forma e Black Engineering (con adeguato corollario di servizi, shop, un ristorante di ottimo livello e persino un cinema). Negli spazi espositivi si susseguono opere e installazioni di grande impatto, sulla scenografia disegnata dallo studio di architettura OMA, sul filo conduttore dei riti che hanno definito l’Islam dalle origini a oggi, tra movimento, anche in senso di migrazione come scambio di culture (“Hijrah”) e la sacra direzione (“Quiblah”), partendo dalla “prima casa (“Anwal Bait”) – che dà anche il titolo alla mostra – con riferimento alla Kaaba, al centro della moschea della Mecca. In tutto partecipano 45 artisti, provenienti da varie nazioni del mondo islamico. Tra questi, i sauditi Ahmed Mater (n.1979), Nora Alissa (n.1985), Basman Felemban (n. 1993), Sarah Brahim (n. 1993) – che ha partecipato alla Biennale di Lione e alla Biennale di Arte contemporanea di Ryad – Lubna Choedhary, artista performativa nata in Tanzania (1964), gli egiziani Wael Shacky (n. 1971) e Moataz Nasr (n. 1961) o il sudafricano Haaron Gunn-Salie (n. 1989). La Biennale di Arti islamiche di Jeddah trova la sua interfaccia in quella di Ryad, dedicata invece all’arte contemporanea, che si terrà nel 2024.
Micaela Zucconi
Instagram: @biennale_sa
Caption
Andy Warhol, Self-Portrait (Fright Wig), 1986 – The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. 1998.1.2887 – © 2023 The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. / Licensed by DACS, London
Andy Warhol, still dal ritratto filmato (Screen Test) di Edi Sedgwick, 1965 – © The Andy Warhol Museum, Pittsburgh, PA, a museum of Carnegie Institute. All rights reserved.
Render of Ashab Al-Lal by Ahmed Mater at Wadi AlFann. Visualization by Atelier Monolit – Courtesy of ATHR Gallery
Render of Ashab Al-Lal by Ahmed Mater at Wadi AlFann. Visualization by Atelier Monolit – Courtesy of ATHR Gallery
Biennale di Arte Islamica, Haroon Gunn-Salie, Amongst Men (2014/23) I,000 pezzi, dimensioni variabili, audio, 12′ – Courtesy Biennale di Arte Islamica