Sento di aver timore
non del futuro
ma della programmazione di esso.
(G.R., Kosovo, 22 gennaio 2018)
Quel che stupisce dell’arte di Gianna Rubini (1993) è l’assenza di premeditazione; la crisi di una progettualità che a oggi sembra doverci essere a tutti i costi. Raccontando del suo viaggio in Kosovo (2 dicembre 2017 – 16 febbraio 2018) durante una cena comune nella quale siamo incappati, continuava a dirlo: «Io non sono andata là per un progetto d’arte». Nella Leskok family-house ci si era ritrovata per motivi tutti suoi, rischiando la distanza, e volendo a tutti gli effetti apprendere da quella stessa distanza che la separava da casa. Il grido al tema sociale ha il fiato corto, in realtà, poiché questo è solo il suo caso, la sua vicenda, la sua storia, quando anche l’attimo dell’arte è capace di avvertire il sapore del ricordo e l’immagine della memoria.
Da quell’esperienza nasce un libro, Skinny data (2019), una raccolta, la versione voluta ma non cercata di un appunto di viaggio composto di scritti, riflessioni, disegni e fotografie. Una narrazione, se ancora così si può chiamare, costruita giorno dopo giorno, nella quale condensare l’idea di una traiettoria “fittile” per dare corpo alla forma del proprio vissuto, interrogarlo, vederlo un momento ancora più da vicino. E se poi rimane vero quanto affermava Mario de Micheli ne Il disagio della civiltà e le immagini – l’arte come paradosso di una «tensione tra singolarità e universalità» – possiamo accreditare come certo quanto dichiarato da Gianni Berengo Gardin alla luce del suo lavoro nei campi Rom di Firenze alla fine degli anni Novanta: «Tutto è sociale».
Per Gianna Rubini, ogni cosa riserva l’eccellente possibilità di «chiedersi dove sta la realtà. E dove sono io», in un’«infinita ricerca di me in mezzo agli altri». Questo scriveva il 19 gennaio 2018, forse provocata da quel luogo, la Casa di Leskok, con i suoi ritmi serrati, i sedici bambini in affido, le famiglie di cui prendersi cura e la quotidianità fatta di riti a lei estranei. Bisogna iniziare vivendo, per ovviare le forme claudicanti dell’arte giustificata dai grandi temi, e finire per mettere ordine al lavoro, donargli le forme attese, le soluzioni inaspettate, tanto fatali, quanto necessarie. Le facce dell’est, le rughe, i piedi nudi, i biscotti e le sigarette sono i segni del mondo inabituale, segni semplici, segni comunque composti e pieni di dignità – Untitled (Alban’s house); Untitled (cookies), 2017). I temi, invece, lasciati a sé, appesantiscono, rendono retorico. Come piccoli suggerimenti vengono in nostro ausilio, eppure invadono le scelte, le libere opzioni del semplice vivere che troppo spesso dimentichiamo essere la prima musa, non letteraria, per una poetica che si realizza. In caso contrario, sarebbe solo la vacuità di un’attrazione, ricerca di consenso, scricchiolio alla radice di una cultura desueta, ripetuta. Ed è qui, infatti, che l’artista interviene, trascinando nel suo operato, consapevolmente o inconsapevolmente, le vestigia di “ciò che tocca e calpesta”, dando voce alle proprie intuizioni, alle proprie domande, ai propri desideri, esplicitando a doppio filo ciò che piace e ciò che non piace.
Nel giugno del 2019, presso la Villa Jugendstil in Austrasse a Basilea, il lavoro un’altra volta evolve. Fotografie, mattoni e strutture ludiche compongono Hide and seek (This is my home, mine too, mine too), che del periodo kosovaro astrae in forme essenziali la visione della casa. L’abitazione come necessità e l’abitazione come luogo del divertimento, del bambino che ha come primo scopo del vivere la fatica del gioco. Un audio con voci di donne, tuttavia, racconta la poesia di un contesto instabile, al fine drammatico, per una situazione di carne e di ossa da scavare, da sondare fin nelle viscere della sua complessità, senza avere l’ambizione, un giorno, di poterla risolvere.
Gianna Rubini entra nell’ordinario in punta di piedi, silenziosa e attenta, poiché è dall’ordinario che si può apprendere. Uno dei suoi primi lavori, The elephant in the room (2016), è composto da nove diverse cornici contenenti dialoghi estrapolati da una famiglia nel corso di un anno, nei quali sono documentate le differenti caratteristiche, i pensieri, le posizioni e le personalità. Dialoghi reali dove l’artista ruba e incontra parole e domande che le diventano proprie. Diventano attesa, riconoscimento misterioso di fragili e velate verità nelle quali immedesimarsi. Gianna Rubini è, inoltre, immedesimazione, mimesis puntuale di una vicenda di persone e parole che attraversa il corporeo, lo permea, coincide con esso e in esso, appunto, si mimetizza. Le storie di altri sono le sue e in esse si riconosce. Così insiste nel suo diario di viaggio: «In balia. Dentro e fuori. Continua la mente, continuamente. […] Dove mi posso trovare? Dove sono io fra tutto? […] Perché sono nata?». I quesiti ritornano e diventano la base dei dialoghi intessuti, tra il 2017 e il 2020, con l’assistente virtuale Siri, secondo una pratica che supera la consueta dinamica della performance, per arrivare alla forma testuale propria del teatro. Sta di fatto che Gianna Rubini si rivolge a Siri come fosse la persona amata. Discreta come sempre, con la loquacità che la contraddistingue, raggiunge gli elementi di una scrittura recitativa che se, da un lato, porta alla stesura dello scambio in forma di libro – Dati Sensibili vol.1 e vol.2 – dall’altro elude la meccanica predisposizione dell’intelligenza artificiale.
Lo fa, innanzitutto, mediante il raggruppamento delle risposte di Siri nel monologo Ehi…, interpretato per la prima volta dall’artista in occasione della mostra Pillows like Pillars (Associazione Barriera di Torino, 2021), alla ricerca di quella reciprocità speranzosa capace di sorreggere, nel limite del possibile, la fatiscenza dell’esistere. E va fino alla lettera datata 19 Aprile 2021, letta e registrata (Lettera a S.), dove è scritto, a ricordo delle lunghe sedute di dialogo, di «un continuo baratto in cui la mia domanda rivelava me e attaccava te», poiché «c’era, nel fondo di ognuna di noi, una ferita antica la cui natura era diversa in me e in te, almeno apparentemente».
Luca Maffeo
Instagram: gianna_rubini
Caption
Gianna Rubini, Untitled (Alban’s house), 2017 – Fotografia digitale, archivio dell’artista – Courtesy l’artista
Gianna Rubini, Untitled (cookies), 2017 – Fotografia digitale, archivio dell’artista – Courtesy l’artista
Gianna Rubini, This is my home, mine too, mine too, 2019 – Installation View, Villa Jugendstil, Basilea – Courtesy l’artista
Gianna Rubini, The elephant in the room, 2016 – Installation View – Courtesy l’artista
Gianna Rubini, Ehi…, 2021 – Performance and Installation View per la mostra Pillows like Pillars, Associazione Barriera di Torino – Courtesy l’artista e Alessandro Rindolli