Nel corso della breve carriera di Fèlix Gonzales-Torres ricorrono con una certa insistenza alcune serie di lavori che rivelano un approccio impegnato politicamente e allo stesso tempo quasi mimetizzato nell’attenzione rivolta ai contesti di esposizione. Nel caso specifico delle caramelle, Féliz ci proponeva delle installazioni ambientali messe a disposizione del pubblico il quale era invitato a portare con sé una traccia, meditando sulla caducità e la fugacità della nostra esistenza. Nella messa in scena di un determinato peso preciso e nelle dimensioni dello spazio in cui erano esposte le caramella, il lavoro dell’artista è molto complesso e profondo: non solo mostra il problema della malattia dell’AIDS, che consuma gli affetti giorno per giorno, ma ha anche un certo impatto nella mente dei visitatori, finalmente partecipi e attivi in un processo di vita vera, che dall’amore passa inesorabilmente alla morte.
Perché tornare a ricordare il già così noto Fèliz Gonzales-Torres per ragionare sul lavoro di Alice Pilusi (Atri, 1997)? Perché uno degli aspetti più significativi ed evidenti del suo lavoro è caratterizzato da visioni che evocano immagini femminili attraverso pratiche e concettualizzazioni iper luminose, artificiose, caricaturali e grottesche, che mirano a trasformare i feticci sociali in segni enigmatici di un sistema di valori che idealizza la giovinezza, la bellezza e l’innocenza. Risulta interessante unire queste ricerche perché l’arte, per parlarci di relazioni, propone opere che riflettono il mondo e che sono contraddistinte da un pensiero, a tratti freddo e a tratti ironico, sull’ambiguità della nostra percezione e sulla capacità di guardare al costituirsi come strumento di appropriazione del reale.
È un fenomeno generale che riguarda la natura umana, ci dice Friedrich Schiller nel suo Dell’arte tragica (1792), perché tutto quello che è triste, terribile e perfino orrendo ci attira con un fascino irresistibile e può essere ricondotto a una condizione che investe la realtà, l’uomo e i suoi sentimenti, con il fascino che tutto questo nasconde. Il lavoro di Alice Pilusi si formalizza dentro e fuori la realtà attraversando un mondo immaginario caratterizzato da visioni che celebrano il declino del patriarcato e la banalità dell’oggettificazione della società contemporanea. Si potrebbe dire che quest’indagine esplori verosimilmente il lato sinistro della fanciullezza nell’epoca digitale, l’impatto tecnologico e la possibilità che possa emergere un trauma da iper digitalizzazione sia a livello individuale sia collettivo. Si parla da tempo di immaginabili effetti traumatici relativi all’eccesso di esperienza digitale, tra cui una consistente dipendenza dai social network; Alice sembra proporre al pubblico questioni dalle quali si avverte una possibile autocoscienza su come la dipendenza dalla tecnologia possa risultare una possibile causa di disagio psicologico, fisico e mentale, una minaccia alla nostra stessa libertà e motivazione a vivere.
La costruzione di una soggettività, le immagini di trasformazione sessuale, l’espressione contemporanea e la tradizione cinematografica sono alcune delle tematiche a cui Alice dedica parte della sua ricerca.
Lo psicologo e accademico Albert Bandura individua l’agentività come qualcosa o qualcuno che produce, o è capace di produrre un effetto attraverso differenti modalità linguistiche atte alla riappropriazione del sé e alla rivendicazione della propria costruzione. Se le immagini a cui Alice fa riferimento e i materiali da cui è attratta rappresentano una sorta di desiderio insoddisfatto di tornare bambina, dietro queste visualizzazioni l’artista sceglie di mettere in gioco le proprie storie, esperienze e competenze per una creazione di senso che sia autenticamente condivisa attraverso un apprendimento condiviso e partecipato. È in realtà una lotta contro il tempo, dove razionalità e immaginazione si scontrano sempre in quello che è il cammino verso il diventare grandi e l’età adulta. Parallelamente a questa (de)crescita temporale, si affianca anche una crescita interiore, dove Alice conosce sé stessa e le emozioni dell’animo umano. È un richiamo a un’idea di fanciullezza che rievoca un passato in cui «realizzavo i miei primi piatti utilizzando la sabbia bagnata del mare, le formine e una motivante dose di fantasia» (Alice Pilusi). L’immaginario acquista un modello che fa da catalizzatore non solo per ripetere, ma anche per manipolare l’esperienza in cui l’arte diviene un luogo dove trovare memoria o fantasia come accesso simbolico a un evento nel quale l’opera diventa registrazione complessa di regressione infantile usando oggetti per sdrammatizzare i fallimenti.
Di progetto in progetto, i lavori di Alice divengono via via più complessi, in particolare nella serie delle torte cave e prive di farciture e nei dolci sciolti caduti per terra e poi ricomposti con l’aiuto della resina al posto della glassa o della panna montata.
Questo è il modo con cui Alice procede nella realizzazione delle sue opere, inizia dal valutare le qualità dei materiali, le texture e le possibili implicazioni che possono assumere in un processo di formazione ma anche di deformazione, il che l’aiuta a esprimere il senso di inadeguatezza e di difformità al canone prestabilito. È l’ordine nel suo insieme che è bello, ma da questa prospettiva le ombre contribuiscono a far risplendere meglio le luci.
C’è un avanzamento nel lavoro di Alice Pilusi in My purple place, recente mostra personale realizzata presso L’Ascensore Art Space di Palermo, a cura di Alberta Romano ed Enzo Di Marino: qui emerge un aspetto interessante che enfatizza e che smaschera i feticci e la costruzione di una bellezza effimera, fugace, vulnerabile. Lo spazio viene trasformato in uno showroom dedicato alle creazioni dolciarie, un mondo di torte e dolci nella loro ammiccante decadenza. Dietro questi oggetti quotidiani si nasconde qualcosa come nell’animo umano. Si avverte una sospensione, come se si restasse in balia di qualcosa che sta per accadere, che diventa così inquietante da creare quasi fastidio. L’artista rappresenta la realtà che si nasconde ma sempre presente, un incubo terrificante che ha le radici nelle profonde inquietudini dell’anima e che rende ancora enigmatica la coabitazione delle luccicanti e brillanti tendine in lattice rosa insieme al resto dell’esposizione.
Carlo Corona
Instagram: alice.pilu
Caption
Bite off more than you can chew!, 2021 – Courtesy l’artista, ph Marco D’intino
Beauty Guru, 2019. Fruffrù, BoCs Art Residenze Artistiche, Cosenza – Courtesy l’artista, ph Michela Pedranti
Veduta dell’allestimento di My Purple Place, 2021, L’Ascensore Art Space, Palermo – Courtesy L’Ascensore Art Space & Courtesy l’artista, ph Filippo M. Nicoletti
Veduta dell’allestimento di My Purple Place, 2021, L’Ascensore Art Space, Palermo – Courtesy L’Ascensore Art Space & Courtesy l’artista, ph Filippo M. Nicoletti
Veduta dell’allestimento di My Purple Place, 2021, L’Ascensore Art Space, Palermo – Courtesy L’Ascensore Art Space & Courtesy l’artista, ph Filippo M. Nicoletti
Birthday dreams, 2021. L’Ascensore Art Space, Palermo – Courtesy L’Ascensore Art Space & Courtesy l’artista, ph Filippo M. Nicoletti