La mia rubrica su FormeUniche si chiama “Sei in studio?”, per la mia abitudine di citofonare agli artisti senza preavviso. Il tuo studio non l’ho mai frequentato molto in quanto lontano dai miei giri consueti, ma essendo divenuti vicini di studio, mi si impone di riprendere le mie interviste da Alessandro Papetti.
Era da un po’ di tempo che non venivo a trovarti e ho trovato dei lavori diversi dal Papetti più noto, più gestuali e svincolati dalla figurazione.
Fanno parte di un ciclo di quadri che ho esposto all’incirca un anno fa a Roma presso Palazzo Poli , sono il frutto di una ricerca lunga un anno, ma che origina da un mio desiderio di lunghissima data, che era quello di non alternare per le mie mostre temi quali il bosco, l’acqua, la città, i nudi. Questa volta intendevo affrontare un’indagine sulla pittura, che è una cosa molto delicata, non essendo io un ragazzino e la pratica della pittura un’esperienza ormai consolidata negli anni. Questi quadri sono stati apprezzati molto dai colleghi che hanno subito riconosciuto che sono sempre io, nonostante la gestualità diversa, ed è stata una ricerca molto difficile, perché per cercare il “modo” non sai mai in che “modo” e quindi avevo già messo in conto che avrei avuto per i primi cinque sei mesi delle grosse difficoltà, infatti ho distrutto gran parte delle opere prodotte, in questo caso ho distrutto sistematicamente quasi tutto e avevo la sensazione che la distruzione fosse l’atto creativo venuto meglio.
Perché la distruzione ti riportava all’essenza di quello che cercavi.
In qualche modo sì, avevo bisogno di una buona dose di cattiveria profonda, di essere molto rigoroso nei miei confronti, quindi per non accontentarmi, ho distrutto anche quadri che non appartenevano a questo filone di ricerca ed erano anche quadri “buoni”, ma mi sono detto che se me li faccio andar bene non vado da nessuna parte e il risultato è venuto fuori dopo mesi di tentativi su dei lavori molto grandi, delle carte di due, tre metri, per le mie sperimentazioni uso quasi sempre la carta come supporto, per un mio fatto mentale.
Sulla carta usi sempre la stessa tecnica, non usi matite o carboncini, ma sempre pennello.
Sempre a pennello, ma in questi ultimi lavori ho usato di tutto, il che mi ha portato a fare anche pasticci assolutamente incongruenti, nel senso che tornando in studio, quello che avevo dipinto il giorno prima era colato a terra e sulla carta c’erano solo delle strisciate colanti; altre volte, invece, dopo quattro mesi era ancora fresco e appiccicoso, per questi lavori non volevo farmi condizionare dalle tecniche che conoscevo molto bene e alla fine, fra questi lavori esposti a Palazzo Poli, c’erano quadri realizzati con un misto di olio, acrilico e carbone. Il risultato è stata una mostra al limite con l’arte informale, anche se non amo questa definizione per il mio lavoro, perché anche nel figurativo c’è già dentro tutto l’informale che vuoi, in quanto questo è dato dalla gestualità. Quando qualcuno mi chiede che tipo di pittura faccio, non riesco a definirmi figurativo, è un termine che significa tutto e niente: gli iperrealisti sono figurativi, ma anche Bacon lo è. I pittori del Realismo Esistenziale degli anni Cinquanta, Vaglieri, Romagnoni, loro comunque si sono sempre considerati dei pittori figurativi, anche se poi quello che appariva sembrava altro, quindi, in questi miei ultimi quadri, non miro a una pittura informale o figurativa, uso sempre la mia gestualità e i miei temi, solo che il soggetto è più indistinto.

Sono puro gesto pittorico, portati all’estreme conseguenze grazie alla tua esperienza e alla tua maestria nell’uso dei pennelli.
Cercando una nuova sperimentazione, la confidenza col mezzo poteva risultare una trappola, ma comunque questi lavori per quanto diversi, sono sempre io, non per niente la mostra l’ho intitolata Io abito qui.
I soggetti sono ancora quelli consueti dei tuoi cicli pittorici?
Qui soprattutto interni, perché sono dei contenitori dove alla fine puoi farci quello che vuoi, mentre una nave resta una nave, nell’interno puoi spaziare molto di più, avevo bisogno di sentirmi libero di sperimentare.
Questi interni sono immagini di un mondo che frequenti o sono tratti da foto che trovi in giro?
Soprattutto per questa mostra non ho mai utilizzato un’immagine fotografica, spesso le ho usate, chiaramente per i cantieri navali partivo da un mio reportage fotografico, qui sono quasi tutti soggetti inventati, volevo che partissero dalla mia mente. Certo che mi appartengono, credo che in qualsiasi espressione artistica, io parlo del pittore perché è la mia professione, ci sia una traccia autobiografica, in questi interni ci trovo dentro un rapporto intimo, c’è il mio studio, c’è una specie di Wunderkammer di forme e soggetti che mi appartengono, probabilmente delle suggestioni che ho visto in studi di scultori, non tanto le sculture finite, ma le forme accennate e abbandonate sulle scaffalature. In fondo questa cosa qui l’avevo già affrontata nel 1990 – 1991 in un ciclo di quadri che avevo chiamato Reperti, esposti in quel periodo alla Galleria Rotta di Genova, e guarda caso anche lì ancora molte carte, che anche se più controllate, erano il tentativo di partire da un interno per andare oltre, dove non lo so mai esattamente.

Mi sembra di capire, che fra i vari cicli pittorici che hai trattato, quello degli interni sia quello che ti appartiene di più.
No, è un ciclo che ho trattato molte volte, perché di per sé è vario, può essere un interno industriale, una casa, il mio studio, ma in realtà torno spesso sui miei temi, ad esempio sull’archeologia industriale sono tornato più volte
Ricordo la bellissima mostra sulle rovine industriali russe
Sì ecco, quella fu una grande esperienza, ma di mostre sull’archeologia industriale ne ho fatte quattro, perché sono vecchi amori che vai a riprendere sempre con un approccio diverso. Prendiamo il tema del corpo, puntualmente se dipingo tanto ciò che è fuori da me, le città, gli interni, sento l’esigenza di tornare sul corpo e anche lì le mostre sul tema, come quelle di due anni fa.
Non ti conosco dagli inizi e non mi sono documentato, da dove sei partito?
Sono partito dalla figura, riprendendola varie volte, poi sono venuti gli interni.
E il tuo esordio nel mondo dell’arte?
Non ho fatto scuole d’arte, mio padre era contrario. Dopo il Classico, contemporaneamente dipingevo e frequentavo l’Accademia per seguire, da esterno, le lezioni di storia dell’arte, erano anni di grandi contestazioni e l’Accademia era un luogo molto libero, quindi seguivo quello che mi interessava senza mai iscrivermi. Ho poi appreso a fare incisioni e per quanto scontato possa apparire, ho imparato sbagliando e chiaramente non riuscivo a vendere neanche un disegno. Non avevo grandi esigenze, la mia prima macchina l’ho avuta a venticinque anni ed era quella che mio padre demoliva. Venne la prima mostra alla Galleria Schubert nel 1985, poi seguirono le mostre a Genova per la Galleria Rotta, una galleria che ora non esiste ma che allora era una galleria storica e di grande importanza, Rinaldo Rotta era il presidente dei galleristi italiani, con lui ebbi un rapporto molto conflittuale, ma che mi aiutò moltissimo a crescere, ce ne dicevamo di tutte, ma in un modo molto affettuoso e diretto e le sue critiche furono molte costruttive.
Quindi il tuo inserimento nel mondo dell’arte è avvenuto in maniera disincantata, senza un progetto imprenditoriale come spesso accade oggi nei giovani.
Quello che sapevo era che avrei voluto fare il pittore, mi recai da Rinaldo con un rotolo di tele da tre metri, lui ne rimase impressionato e dalla mostra che ne seguì scaturì il mio rapporto con Testori. Ne scrisse la recensione sul Corriere che mi diede una grande riconoscibilità fra i collezionisti.

Disegni poco, almeno nel senso canonico del termine, esistono degli studi preparatori ai tuoi quadri? Hai dei blocchi di schizzi?
Sì, li ho, ma non sono degli studi preparatori per i quadri: se io ho in mente un soggetto, che lo realizzi su un foglietto di dieci centimetri o su una tela di tre metri non cambia nulla, quella cosa che ho fatto me la sono bruciata, non diventerà uno spunto per un nuovo quadro. In una pittura gestuale come la mia so più o meno come iniziare, ma non so mai come finirà il quadro, per questo se non mi piace lo distruggo, perché i miei lavori non si possono riprendere e non possono diventare stimoli per altri quadri. Non essendoci un progetto
Non c’è un progetto nei tuoi lavori?
Sì, c’è, ma è mentale, è uno stimolo più grande di altri che mi muove, ma questo mi appare nel momento in cui lo sto già realizzando, mai prima. Anche per lavori molto grandi non esistono studi preparatori. Prendi il ciclo del vento che ho proposto alla mostra a Palazzo Reale di Milano, esisteva solo un disegno di dieci anni prima che avevo abbandonato perché non mi sentivo pronto.
Mi stai dicendo che per un’opera di otto metri per tre non hai realizzato degli studi preparatori?
No, otto metri era il diametro del cerchio, lo sviluppo della tela era ventisette metri per tre metri e trenta centimetri. Ricordo che quando presi in affitto il capannone dove la realizzarli, feci montare i tre cerchi e mi trovai difronte a una difficoltà nuova. L’idea dei cerchi nacque perché volevo trovarmi all’interno del quadro e non più difronte, ma una volta all’interno del cerchio, mentre davanti a una tela il punto di partenza mi è sempre evidente, qui non avevo punti di riferimento, non sapevo da dove partire. Rimasi seduto per terra per almeno venti minuti a osservare il cerchio intorno a me, finché sentii il punto da dove partire, nel caso del cerchio del vento partii dalla figura e con pennellate che realizzai a destra e a sinistra della figura, realizzate correndo, alla fine riuscii a chiudere il cerchio.
Entrando nel tuo studio a distanza di tempo e vedendo i nuovi lavori ho pensato che avevi ancora voglia di dipingere, provi ancora godimento nella pittura?
Nel gesto pittorico ancora sì, certo se il quadro non viene ci resto male, ma sto cercando di non fare quadri di maniera e questo lo ottengo cambiando i temi dei miei quadri, ma anche sperimentando e divertendomi.

Vieni considerato, in maniera quasi unanime, un bravo pittore. È una definizione che ti fa piacere?
Sarei ipocrita se dicessi di no, io apprezzo i bravi pittori, a volte lo trovo un giudizio giusto a volte meno. Quelle volte che sono stato chiamato in Accademia per parlare coi ragazzi, premetto che non ho mai insegnato e non amo prepararmi le risposte, riesco meglio quando non sono preparato (niente disegni preparatori, se non so cosa dipingere a volte è meglio, devo parlare e se non mi preparo è meglio), quindi a proposito della bella pittura, dando un consiglio a quei ragazzi, dissi loro “cercate di usare il pennello sbagliato”. Usai questa metafora per suggerirgli di trovarsi in difficoltà per rincorrere l’errore, che è forse un concetto legato all’esistenzialismo degli anni Sessanta, ne parlavano Beckett e Giacometti. L’artista è colui che ha consapevolezza del fallimento, che è una cosa positiva rispetto al fallimento, perché comunque ha osato fallire.
Concludo con una domanda scontata, che progetti hai nel prossimo futuro?
Una mostra al MARCA di Catanzaro, lo spazio è molto bello e grande, quindi sarà una mostra impegnativa, come al solito arrivo abbastanza in ritardo e fra poco dovrò svegliarmi e caricarmi di adrenalina
Ma il tuo lavoro è fatto in velocità, a me piace accostarti ai futuristi.
La pennellata dei futuristi intendeva esprimere la velocità, la mia è solo veloce, è un modo per togliere, è quasi un gesto scultoreo, è una pennellata in levare, ma in pittura difronte a una tela bianca devi mettere, mettere colore. Quindi per me la pennellata veloce diviene un gesto sottrattivo, uno scavare per far affiorare me stesso.
Immagine di copertina: Dentro al cerchio del vento – courtesy Alessandro Papetti
LORIS DI FALCO – SEI IN STUDIO ?